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"Un carroccio contro i lavoratori", di Cesare Damiano

Altro che “sindacato del Nord”. Nell’ignobile farsa messa in scena dal governo Berlusconi con le due manovre d’estate, la Lega ha giocato un ruolo da protagonista. E, nonostante le dichiarazioni, a pagare il conto più salato sono proprio i lavoratori, quelli che gli uomini del Carroccio proclamano di voler difendere. Clamoroso è il caso previdenza. Più volte in questi mesi, con fare bellicoso, Bossi ha scandito che “le pensioni non si toccano”. Posizione comprensibile dal momento che gli assegni di anzianità – contro i quali periodicamente si concentrano gli attacchi del centrodestra – interessano i “lavoratori precoci”, quelli che hanno fatto il loro ingresso in fabbrica o in officina prima dei diciotto anni. Un fenomeno presente quasi esclusivamente nelle regioni del Nord, dove fra gli operai e i pensionati la Lega si è costruita un proprio bacino elettorale.
Nonostante i proclami, però, le cose sono andate in tutt’altra direzione e il risultato, per le lavoratrici e i lavoratori, è stato disastroso. Senza che la Lega trovasse la forza di far seguire alle promesse azioni concrete.
I fatti sono inconfutabili. In un anno, con la complicità del ministro Sacconi (un altro che ha sempre giurato che le pensioni non sarebbero state toccate), il governo ha cambiato tutto o quasi. Prima – per decreto – ha introdotto l’innalzamento generalizzato dell’età pensionabile attraverso l’aggancio alla speranza di vita. Poi, ha alzato l’asticella (da 60 a 65 anni) per le dipendenti della pubblica amministrazione, utilizzando ad arte una direttiva europea che non richiedeva i 65 anni, ma la parità fra uomini e donne. Subito dopo, nonostante il solenne impegno a non coinvolgere le lavoratrici del settore privato, ha deciso di applicare anche a loro, attraverso un allineamento progressivo (di manovra in manovra sempre più ravvicinato nel tempo), le disposizioni introdotte per il pubblico impiego. Nel frattempo, per non far torto a nessuno, con l’introduzione di
una nuova “finestra fissa”, ha allontanato – da subito – di un anno il pensionamento per tutti (18 mesi per i lavoratori autonomi), compresi coloro che hanno maturato i 40 anni di contributi: i lavoratori precoci di cui parlavamo in precedenza. Gli stessi che in uno degli ultimi vertici di Arcore, nonostante Bossi, il centrodestra aveva in un primo momento deciso di punire eliminando dal computo dei 40 anni necessari per accedere alla pensione il periodo del servizio militare e quello (volontariamente riscattato) degli studi universitari. Nei fatti un ulteriore aumento da uno a sei anni (e più) dell’età pensionabile. Una norma che il centrodestra è stato costretto a cancellare precipitosamente non in base a un autonomo ripensamento, ma sotto la spinta della montante protesta popolare, della nostra opposizione e di quella dei sindacati. Tutto ciò senza contare il
tentativo d’assalto alle pensioni di reversibilità messo in atto in prima persona da Roberto Calderoli, ministro (leghista) per la Semplificazione. Un attacco a vedove e vedovi, persone in maggioranza a basso reddito. Una proposta per il momento accantonata che, per il “sindacato del Nord”, sarebbe stata una vera e propria debacle.
A rendere il bilancio più pesante, per un partito che si proclama difensore dei lavoratori sul territorio, c’è poi l’articolo 8 della manovra, quello che consente alla contrattazione aziendale di derogare leggi e contratti fino a permettere la libertà di licenziamento. Di fatto uno svuotamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per operai e impiegati delle imprese private, concentrati soprattutto nel centro-nord, un altro colpo micidiale, specie in un momento tanto difficile per l’occupazione. Per risanare i conti non serve tentare di far cassa con le
pensioni né tantomeno ridurre i diritti. Sfatiamo questo luogo comune liberista secondo il quale attaccare lo Stato sociale sia il massimo della modernità: si tratta semplicemente di una politica di destra, direi persino reazionaria. Occorrono politiche di sviluppo, tagli agli sprechi e, finalmente, un occhio anche a patrimoni, rendite e speculazione internazionale. L’età pensionabile, per effetto delle riforme dell’ultimo governo Prodi, sta aumentando. Già nel 2013 l’età minima per uscire dal lavoro sarà di 61 o 62 anni. La rappresentazione di un sistema previdenziale statico, da aggredire con interventi traumatici, è fuori della realtà. Se lo si vuol riformare si stabilisca il principio dell’uscita flessibile verso la pensione, in una età compresa tra i 62 e i 70 anni, a scelta del lavoratore. Ma a questo governo non importa nulla delle vere riforme.

L’Unità 20.09.11