attualità, partito democratico

La bandiera del cambiamento: «Da qui parte un’Italia nuova», di Maria Zegarelli

Un fiume di gente in piazza che ha una sola richiesta al premier: «Dimissioni». Applausi quando Roberto Vecchioni richiama all’unità e consapevolezza che stavolta si può davvero voltare pagina. Eccola qui piazza San Giovanni restituita a se stessa e alla sua storia. Si riempie via via di una folla immensa, di bandiere tricolore che si incrociano con quelle del Pd, ovunque bianco rosso e verde, interrotto soltanto dal giallo delle bandiere dei giovani democratici. Uomini e donne, padri e figli, giovani e anziani, che in questo pomeriggio di cielo incerto spazzano via il ricordo delle immagini di guerriglia urbana del 15 ottobre scorso e si impongono con una pacifica ma inamovibile richiesta al Presidente del Consiglio: «Dimettiti».
Arrivano già alle undici del mattino, piccoli gruppi, i panini nello zaino, «perché sai, con il rischio di trovare tutti i ristoranti prenotati come dice Berlusconi, è meglio arrivare organizzati», ironia amara di Alessandro, sbarcato a Roma in pullman da Arezzo. Alice è seduta a terra, capelli lunghi, è qui, racconta, perché adesso «quello che conta è superare questo momento. Berlusconi deve dimettersi, siamo qui per chiedergli di andare via non per il Pd per il paese».
Dalle strade laterali confluiscono tanti mini cortei al posto di quello grande che non si è potuto fare su disposizione del sindaco di Roma Gianni Alemanno. Dall’Emilia Romagna arrivano con le bandiere con su scritto «Basta. In nome del popolo italiano». Vanno a ruba. All’una approda il gruppone cagliaritano, tutti insieme dietro ad uno striscione: «Corta, populos, est s’ora d’estirpare sos abusos: a terra su dispotismu». Poco più avanti le maschere più fotograte, Berlusconi con un cartello al collo: «Forza gnocca, cerco fiducia, pagamento in contanti». Al suo fianco Bossi: «Silvio, cambiami il pannolone». Sventolano le bandiere dei Moderati, e spiccano i camici bianchi dei farmacisti. Tiziana Menoliti parla a nome di tutti i suoi colleghi: «Siamo qui perché vogliamo che si facciano liberalizzazioni vere, quelle iniziate da Bersani e poi bloccate da 5 anni». I romani scendono in piazza in tantissimi, si mescolano ai militanti arrivati dalla Toscana, dall’Umbria, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Lombardia. Ci sono militanti Idv e Sel, sono tanti anche loro, mescolati tra i democratici, in gruppi.
Dal palco le note e le parole di Roberto Vecchioni che invita i dirigenti Pd all’unità e a smetterla con i distinguo e raccoglie ovazioni, poi l’appello per la sottoscrizione per le zone alluvionate. Ricostruire l’Italia, la politica, l’etica e il suo territorio devastato dalle piogge torrenziali e dalla mancanza di fondi per la tutela, dai condoni edilizi e dall’incuria.
Alle tre del pomeriggio la piazza è piena, la folla arriva fin laggiù, il punto dove se lo raggiungi allora sì che puoi dire che è andata bene. Lo indica Maurizio Migliavacca salendo sul palco: è la statua di San Francesco il riferimento. Superata di centinaia di metri e il fiume di bandiere continua ad affluire. Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione è molto più che soddisfatto. Racconta che venerdì davanti alla notizie drammatiche che arrivavano dalla Liguria ci si è chiesti come il Pd avrebbe dovuto rivedere la scaletta. «Alla fine abbiamo deciso di accorciare i tempi destinati alla musica e di dare ampio spazio alle iniziative di raccolta dei fondi per la ricostruzione delle zone alluvionate».
All’improvviso si sentono dei fischi. Che succede? Arriva Matteo Renzi. Manuela, vent’anni, commenta: «Non dice tutte cose sbagliate il Renzi, ma noi abbiamo bisogno di altro». Di cosa? «Della saggezza dei più grandi e dell’entusiasmo dei giovani».
E così tra saggezza e entusiasmo si balla sulle note di Bella Ciao e l’Inno alla Gioia, si canta ad una sola voce l’Inno di Mameli e si applaude più forte quando Bersani dice che da qui oggi parte un messaggio di fiducia e di speranza. Questa gente è stanca della rassegnazione, che pure per un certo periodo è serpeggiata nel centrosinistra, si sente già nel dopo Berlusconi e basta farsi un giro per scoprire che la domanda più ricorrente è se «è vero che sta per dimettersi». Neanche più il nome citano, non ce n’è bisogno. Matteo, arrivato dalla Sicilia dice che no, il governo di transizione non è la soluzione, Claudio gli sta affianco e gli risponde che se serve questo passaggio «per far sì che l’Europa la smetta di riderci dietro, allora a me sta bene anche un governo di transizione».
Il grande schermo sul palco, posto a lato della basilica, è un gigantesco tricolore con pannelli e luci in tono che interagisce con la piazza. Il dialogo scorre tra i tweet del canale pdnetwork, attraverso «Hastag#cinque11» ci si scrive e ci si legge tutti insieme. C’è chi sta per arrivare con il treno e manda un messaggio, chi imbuca il suo pensiero in questa bottiglia immaginaria lanciata in questo mare immenso di gente.
Fischi ad oltranza quando appaiono le immagini del premier, immancabile un «Chi non salta Berlusconi è». Ovazione quando il segretario dice che il Pd è pronto. Che il Paese è pronto a rialzarsi e uscire fuori «dal pozzo». Qui in piazza San Giovanni molti vorrebbero il voto subito, ma sanno che potrebbe essere necessario un passaggio ulteriore. Sanno bene che non c’è più spazio per le favole.

L’Unità 06.11.11

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Bersani a piazza San Giovanni «Ridaremo dignità al Paese», di Simone COllini

Bersani a San Giovanni rilancia il «patto di legislatura» tra progressisti e moderati e gioca la carta dell’orgoglio: «Vedo bene le operazioni in corso, ma si illude chi pensa di ridurre il primo partito a ruota di scorta». Inizia a parlare dopo l’Inno di Mameli e chiude sventolando il Tricolore, giocando un po’ la parte del De Niro-Al Capone contro la «destra tutta chiacchiere e distintivo» e un po’ mettendo sul piatto le proposte per l’alternativa, suonando la carica ai suoi perché il difficile arriva ora e avvertendo tutti quelli che giocano a «dividere» o parlano di un Pd dalle posizioni «ondivaghe» che per quanti sforzi possano fare non riusciranno a relegare il primo partito italiano al ruolo di semplice «ruota di scorta». Pier Luigi Bersani chiude la manifestazione del Pd facendo vedere da San Giovanni la «forza enorme» di cui dispone il suo partito.
Forza programmatica e anche organizzativa, perché riempire da soli questa piazza non è impresa in cui si siano cimentati molti partiti. Ma forza soprattutto in termini di capitale umano e di patrimonio valoriale, perché poi basta fare qualche chiacchierata qua e là per capire che le migliaia di persone stipate davanti alla Basilica non sono “truppe cammellate”, e poi basta far caso a quali siano i passaggi del discorso di Bersani più applauditi per rendersi conto che tra gruppo dirigente del Pd e base elettorale ci sia piena sintonia sulla necessità di assumersi precise «responsabilità» in questa complicata fase di crisi, lavorando per ottenere maggiore «equità», per garantire una vera «uguaglianza», per far «pagare» chi fin qui ha escogitato metodi per non farlo, per «creare lavoro e non facilitare i licenziamenti».
Per far sì è il senso del discorso di Bersani che la piazza dimostra con gli applausi di apprezzare che dalla crisi si esca avendo come faro valori fin qui giudicati superati o di ostacolo a crescita e sviluppo, quando invece la «verità, che finalmente deve darsi la mano con la fiducia» è tutta l’opposto.
Per Bersani la manifestazione di San Giovanni è il primo passo verso la «ricostruzione» sulle macerie del berlusconismo. «La nostra promessa è che riporteremo l’Italia là dove deve stare, riporteremo l’Italia alla sua dignità, al suo buon nome, alla vocazione europeista che fu di Spinelli, di De gasperi, di Prodi».
Dell’attuale governo ne parla quasi al passato, anche se sa che la battaglia in Parlamento è ancora tutta da giocare. «Prima di tutto c’è una vecchia pratica da sbrigare dice Berlusconi deve andare a casa, e o ci va da solo o ce lo manderemo noi, o in Parlamento o alle elezioni». E anche quando ne parla, è per marcare la differenza con quel che è e quel che dovrà essere: «L’Italia è un grande Paese e ha un popolo che ha sempre avuto la forza di rialzarsi e partire. Anche per questo tra le cose che ci indignano di più è vedere il nostro Paese sbeffeggiato, vedere che all’estero dell’Italia si ride. Non era mai accaduto e non lasceremo che accadrà mai più». Perché poi è il futuro ciò che interessa a Bersani, ciò a cui sta lavorando ora.
PATTO DI LEGISLATURA
Da San Giovanni, dove sono arrivati il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, esponenti di Sel, il segretario dei Socialisti Riccardo Nencini e insomma tutte le forze che dovrebbero dar vita al Nuovo Ulivo, il leader del Pd rilancia l’alleanza tra progressisti e moderati. Nell’immediato, dà la disponibilità del suo partito a sostenere un nuovo governo, «se c’è discontinuità e cambiamento, se c’è una credibilità internazionale e interna e se si muove nel senso di un nuovo patto sociale». Ma Bersani sa bene che questo in ogni caso sarebbe «un passaggio di transizione» e che il vero cambiamento «potrà avvenire solo con il concorso attivo e l’assunzione di responsabilità e condivisione dei cittadini elettori». A quel passaggio il leader del Pd vuole arrivarci insieme alle forze di centro, alle quali propone «un patto di legislatura», avvertendo chi di dovere che la prossima volta l’alternativa sarà tra chi continua a credere nel populismo e chi invece vuole ricostruire il tessuto democratico e sociale.
IL PD NON SARÀ RUOTA DI SCORTA
Ma c’è anche un altro messaggio che Bersani lancia da San Giovanni, mentre l’applauso si alza potente. È rivolto a «chi si è illuso che Berlusconi fosse comunque preferibile al centrosinistra», a quanti oggi «perdono tempo a pensare che si possa oltrepassare Berlusconi escludendo il Pd o indebolendolo, o dividendolo»: «Vediamo bene le operazioni in corso. Vediamo la ricerca confusa di soluzioni che possano prescindere dal Pd o ridurlo a una ruota di scorta. No. Il primo partito del Paese non può essere e non sarà mai una ruota di scorta. Abbandonate questa idea, è una illusione. E’ un’idea distruttiva, non per noi ma per l’Italia». Gioca la carta dell’orgoglio, Bersani, prima di chiudere e sventolare il Tricolore con tutto il gruppo dirigente del Pd schierato accanto a lui sul palco.
E a giudicare da San Giovanni e da tutto il resto che si muove attorno sembra possa permetterselo.

L’Unità 06.11.11