attualità, politica italiana

"L´ira di Bossi e i due summit carbonari i dieci giorni che sconvolsero l´Italia", di Claudio Tito

Due settimane fa Mario Monti di buon mattino è andato a messa nella chiesa di San Pietro in Sala a Milano. Oggi ci andrà a Roma. Come ha fatto domenica scorsa probabilmente a Sant´Ivo alla Sapienza, a pochi passi dal Senato. Stesse abitudini, medesimi appuntamenti. Ma in queste due settimane tutto è cambiato. Per il presidente del consiglio e per la politica italiana. «Questa crisi – ammette il leghista Roberto Maroni – è come quel meteorite che ha provocato l´estinzione dei dinosauri. Da questo momento in poi ogni cosa sarà diversa. Il governo Monti non solo archivierà il berlusconismo. Ma il suo obiettivo è pensionare questo bipolarismo e una classe dirigente». Come dice Dario Franceschini citando il giornalista americano John Reed che raccontò la Rivoluzione d´Ottobre, questo sono stati «I dieci giorni che sconvolsero il mondo».
Ma cosa è accaduto in questa settimana e mezza? Ripercorrendo l´agenda di chi ha vissuto da vicino il crollo del governo e la formazione del nuovo esecutivo, si scorgono episodi e incontri rimasti segreti fino ad oggi. Come i due summit al Senato tra Monti, Bersani, Casini e Alfano. O la telefonata di Ennio Doris che ha fatto infuriare Bossi e provocato di fatto la rottura tra il Pdl e la Lega. Passaggi consumati nel quadrilatero istituzionale Quirinale-Palazzo Chigi-Montecitorio-Palazzo Madama e che hanno determinato la caduta del «meteorite» sulla Seconda Repubblica.
Lunedì 7 novembre
I cancelli di Arcore si aprono all´ora di pranzo. Come accade nei momenti più difficili, Silvio Berlusconi convoca un pranzo con i figli e l´amico di sempre, Fedele Confalonieri. I dissidenti del Pdl hanno già spedito la loro lettera in cui chiedono al premier un passo indietro. Ai commensali si presenta stanco, sfiduciato. «Sono stato fino a stamattina a Roma per risolvere la situazione, ma questa volta non so se sarà possibile». Intorno al tavolo parlano soprattutto Marina e il presidente di Mediaset. La primogenita lo invita a «resistere», “Fedele” preferisce usare toni più distensivi. Pier Silvio arriva in ritardo. Tra una portata e l´altra una telefonata. E´ Umberto Bossi. Che gli ripete: «Noi stiamo con te. Ma se ti dimetti, non posso più assicurarti niente». Il presidente del consiglio saluta ma la frase del Senatur è quella che pesa più di tutto.
Martedì 8 novembre
E´ il giorno del voto decisivo sul Rendiconto generale dello Stato. Berlusconi riceve a Palazzo Grazioli alcuni dei “malpancisti”. Contemporaneamente i capigruppo d´opposizione concordano di non partecipare al voto. Nella sala Berlinguer al secondo piano della palazzina dei gruppi, Dario Franceschini riceve Casini, il dipietrista Donadi, il finiano Della Vedova, i liberaldemocratici di La Malfa e i radicali. Chiamano al telefono il leader dei ribelli Pdl Antonione. Con loro ha trattato per giorni il leader centrista. Sa che non possono arrivare a votare contro l´esecutivo. «Se non ve la sentite – gli dice allora Casini – possiamo non votare tutti. L´importante è che la maggioranza non superi quota 311». L´accordo è fatto. Intanto la pressione dello spread con i bund tedeschi supera la terribile quota 500. Il risultato dell´aula di Montecitorio è chiaro: sono 308 i voti favorevoli. La tensione sale. Berlusconi vede Bossi e Tremonti. Il premier va su tutte le furie e se la prende con il ministro dell´Economia. Ma soprattutto cresce il nervosismo del presidente della Repubblica. Il Colle si aspetta una telefonata. Che non arriva. Alle 17 Napolitano chiama Gianni Letta: «O venite di vostra spontanea volontà o faccio un comunicato e vi convoco io». Il capo dello Stato prima avverte che senza dimissioni rispedirà l´esecutivo alla Camera per un voto di fiducia. Poi impone a Berlusconi e Letta di leggere il comunicato vergato dal presidente della Repubblica in cui si annunciano le dimissioni del governo dopo l´approvazione della legge di stabilità.
Mercoledì 9 novembre
Sul tavolo del Quirinale e di Palazzo Chigi arriva la prima pagina del Financial Times: «Berlusconi promette le dimissioni». Un titolo che sconquassa i palazzi della politica e mette a soqquadro le borse. L´idea che non fossero dimissioni operative ma solo annunciate, scombina tutto. Anche perché il calendario parlamentare prevede il voto finale sulla legge di Stabilità solo a fine novembre. Lo spread schizza a quota 575, il Mib crolla e per il titolo Mediaset è una debacle: meno 12 per cento. La Bce interviene. Gianni Letta corre a Palazzo Grazioli. Il confronto tra il sottosegretario e il premier è per la prima volta teso. Lo raggiunge nello studio e non nel salotto dove solitamente si tengono le riunioni. «Silvio, ora basta. Così il Paese non regge altri tre mesi». Il Quirinale deve intervenire con due comunicati e garantire che Berlusconi se ne andrà. Poi, sotto la pressione dei mercati e per rispondere alle frenate del Cavaliere, il capo dello Stato gioca la carta decisiva e nomina senatore a vita Mario Monti nella sorpresa generale. Una mossa che si rivelerà decisiva e che farà precipitare la crisi verso l´incarico al Professore.
I maggiorenti del Pd si incontrano a Largo del Nazareno e su pressione del Colle chiedono di varare in due giorni la legge di Stabilità. Contemporaneamente il Cavaliere vede gli alleati ed ecco uno dei veri punti di svolta della crisi. Bossi continua a chiedere un governo dentro i confini della maggioranza. A fatica si fa uscire una frase per tranquillizzare i leghisti: «Facciamo Alfano o Letta». In quel momento arriva la telefonata di Ennio Doris, il “capitano” di Mediolanum e intimo amico del capo del governo. Il Cavaliere prova a scherzare e aziona il vivavoce. Doris non lo capisce e esplode il dramma: «Silvio, ti supplico. Devi andartene, lascia. Se continua così perdiamo tutte le nostre aziende». L´interlocutore non sorride più. Balbetta e poi tenta una difesa: «Ma la Lega non vuole, se lascio si rompe l´alleanza con Bossi». «Ma che ti importa della Lega – gli risponde Doris – pensa alle aziende». Il Senatur si alza e se ne va.
Giovedì 10 novembre
Monti arriva a Roma da Berlino. Prima di salire al Colle parla al telefono con il democratico Enrico Letta. Subito dopo, nello studio alla Vetrata del Quirinale, il Professore comincia subito a delineare la sua squadra di governo. E chiede esplicitamente di inserire nell´esecutivo tre nomi: Gianni Letta, Giuliano Amato, Enrico Letta. Opzione che Napolitano condivide. Poi tocca a Pier Ferdinando Casini parlare con il capo dello Stato lanciando l´allarme: «Stiamo a un passo dal baratro». Si riunisce di nuovo il vertice del Pdl.
Venerdì 11 novembre
Mentre il Senato vota la Legge di Stabilità, il capo dello Stato deve correre ai ripari con i leader internazionali. Il giorno prima aveva parlato con Barak Obama, poi parla con tutte le Cancellerie europee. Nello studio che Ciampi utilizzò per le consultazioni del suo governo, Monti riceve il Governatore della banca d´Italia Visco. E Berlusconi richiama a Palazzo Grazioli tutta la sua coalizione. Si è già convinto della soluzione Monti, però vuole garanzie: «Non vorrei che questi intervenissero sulle concessioni televisive con una nuova legge Gentiloni. Diteglielo voi, o faccio saltare tutto».
Sabato 12 novembre
E´ la giornata del voto finale sulla legge di stabilità e delle dimissioni formali di Berlusconi. Il centrosinistra vuole evitare che il governo abbia più di 308 voti. Casini chiama Bersani. E´ allarmatissimo: «Se arriva a 310, quello torna da Napolitano e gli dice che ha ancora i voti». La soluzione? «Io – dice il leader Udc – voto a favore. Così nessuno può fare calcoli strani». Ma la giornata è convulsa. Monti incontra prima Bersani e Enrico Letta, poi il presidente centrista. Quindi Mario Draghi.
Ma c´è ancora un colpo di coda. Berlusconi avverte che vuole “Gianni” nell´esecutivo. Si riunisce lo stato maggiore del Pd. Il clima è pesantissimo. Bersani circondato da una nuvola di fumo del suo sigaro toscano: «Che facciamo? Se insistono su Letta possiamo davvero dire no? Facciamo cadere nel baratro il Paese?». I democratici non se la sentono. E infatti tirano fuori dal cilindro un´ultima offerta: un vicepremier di partito. Chi? Scartato Enrico Letta (sarebbe stato il governo “Letta-Letta”), arrivano al capogruppo Dario Franceschini. Ma il tutto cade per l´ennesima telefonata che ha cambiato la crisi. Gianni Letta chiama Bersani e annuncia: «Mi tiro indietro, state tranquilli».
Domenica 13 novembre
Monti riceve l´incarico. Ma anche questa giornata è attraversata da un filo di terrore. Il giorno prima molti in piazza avevano esultato per l´addio del Cavaliere. Episodi che hanno turbato il premier dimissionario. Che in preda all´ira chiama gli alleati e spedisce un messaggio al Quirinale: «Non posso tollerare di uscire nell´ignominia. Tutti si scusino, o io non ci sto». Ormai, però, la macchina del nuovo governo era stata messa in moto.
Lunedì 14 novembre
Iniziano le consultazioni. E scoppia di nuovo la “grana” dei ministri politici. Monti insiste e anche il Pdl. I democratici entrano in crisi. Gianfranco Fini telefona al premier incaricato e tenta una mediazione. Ma soprattutto si organizza una vertice supersegreto, in piena notte. Bersani, Casini e Alfano raggiungono Monti al Senato. Il primo summit di maggioranza tenuto segreto fino ad ora. «Queste sono le mie scelte – spiega Monti con pacatezza nella luce soffusa di Palazzo Madama – . Ma vorrei che ci fosse corresponsabilità, condivisione. Vorrei che anche Berlusconi accettasse questa strada». Insiste sui ministri «politici», su Gianni Letta e Giuliano Amato. L´accordo non si raggiunge. Ma i toni si abbassano.
Martedì 15 novembre
Finiscono le consultazioni. Il nodo della squadra di governo resta. Il presidente del consiglio in pectore ripete a Bersani e Alfano di volere Amato per gli Esteri. Il segretario Pdl risponde: «Allora ci deve essere pure Gianni». Bersani sale al Quirinale.
L´incontro non è dei più cordiali. Napolitano vuole stringere i tempi e non apprezza le frenate del Pd sui «politici». Il capo dei democratici non si arrende: «Mi dispiace, ma per noi è impossibile». Lo dice anche allo stesso Letta. Ancora stallo. E ancora un altro vertice supersegreto, ancora al Senato. Si vedono di nuovo Monti, Alfano, Bersani e Casini. Scintille tra “Pierluigi e Angelino”. Alla fine – dopo tre ore – si trova la quadra. La compagine del primo governo Monti è definita. Il premier incaricato: «Capisco le vostre ragioni, però il vostro sostegno deve essere pieno». Nella notte un altro piccolo giallo. Berlusconi torna all´attacco sul ministero della Giustizia: chiede il giudice costituzionale Mazzella. Ma l´accordo ormai è fatto.
Mercoledì 16 novembre
E´ il momento di presentare la lista dei ministri. Il patto della notte tiene. Ma a «romperlo» ci pensa Corrado Passera. Il ministero dello Sviluppo Economico non gli basta. Vuole anche le Infrastrutture. Monti è già al Quirinale. La trattativa cogestita con Napolitano va avanti per oltre due ore. Alle Infrastrutture era previsto Gnudi. Lo voleva Casini. «Io entro solo se ho tutte quelle deleghe», obiettava l´Ad di Intesa. La soluzione si trova alla fine togliendo la delega dell´Ambiente al superministero di Passera.
A quel punto il «mondo era davvero sconvolto». E il «meteorite» aveva colpito il «pianeta della Seconda Repubblica».

La Repubblica 20.11.11