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"La laicità del Pd e i religiosi del maggioritario", di Cristoforo Boni-

Il Pd è un partito che può vivere con qualunque sistema elettorale: non ha bisogno del maggioritario per definire la propria identità. Per aver detto queste cose, che rappresentano peraltro un atto di fiducia verso il futuro del Pd, Dario Franceschini è stato bersaglio di critiche: per qualcuno in casa democratica l’implicita apertura a una riforma di tipo proporzionale è quasi una bestemmia (contro la religione del maggioritario, s’intende).
Nell’emergenza economica, parlare di legge elettorale può apparire un diversivo. Ovviamente, altre sono oggi le priorità. Tuttavia il tema è di grande rilievo. Almeno per due ragioni. La prima riguarda, appunto, la natura del Pd. Contestare le affermazioni di Franceschini vuol dire avventurarsi nel territorio più ostile al Pd, abbracciando di fatto la tesi in base alla quale la sua fondazione è figlia di uno stato di necessità, indotto dalla costrizione del maggioritario. Il Pd non sarebbe nato dunque da un incontro di culture riformatrici, o dal proposito di dare un orizzonte “democratico” al centrosinistra cresciuto con l’Ulivo, ma dalla gabbia maggioritaria imposta nella (fallita) transizione istituzionale. E, senza la gabbia, il Pd sarebbe destinato a disintegrarsi.
Peraltro, sostenere che il Pd possa vivere e affermarsi come la forza più rappresentativa dei progressisti italiani qualunque sia l’assetto del sistema (maggioritario, proporzionale o misto) è la convinzione originaria del progetto. La stessa “vocazione maggioritaria”, il tratto più significativo della stagione di Walter Veltroni, sarebbe fortemente ridimensionata in uno schema dove il maggioritario diventa una necessità: non a caso il Pd fu apprezzato come via d’uscita dalla confusione dell’Unione e ottenne un risultato lusinghiero (pur nella sconfitta) in uno schema di gioco molto simile al “modello tedesco”, con due competitori maggiori (Pd e Pdl) e due forze intermedie (l’Udc e la Sinistra).
Ma c’è un’altra ragione che milita a sostegno di Franceschini. Alla fine del ciclo berlusconiano è arrivata l’ora di sfatare i falsi miti della Seconda Repubblica. Bipolarismo e maggioritario non sono affatto sinonimi. Il bipolarismo è un concetto che appartiene alla politologia. Mentre invece il maggioritario è un meccanismo elettorale. Non è vero che la cosiddetta Seconda Repubblica ha portato il bipolarismo: è vero invece che il bipolarismo è stato presente sin dalle origini della nostra Repubblica. Solo che nei primi trent’anni non ha mai prodotto, per ragioni internazionali, una vera democrazia dell’alternanza.
Tanto è connaturato il bipolarismo alla politica italiana che la sua crisi strutturale, negli anni Ottanta (quando il Psi di Craxi tentò di sviluppare l’alternanza all’interno di una maggioranza bloccata), ha provocato il collasso del sistema. Con la Seconda Repubblica abbiamo conquistato la democrazia dell’alternanza. Ma il meccanismo maggioritario non ha mai davvero funzionato. Il mito dell’elezione diretta del premier si è sempre scontrato con i principi costituzionali. La promessa della semplificazione è stata contraddetta dalla moltiplicazione dei partiti e dal dilagare del trasformismo. Il Porcellum ha accentuato i difetti del Mattarellum, aggiungendo le liste bloccate al cancro del maggioritario di coalizione (il nostro surrogato presidenzialista dentro un sistema di governo parlamentare).
Speriamo che con il governo Monti si riesca ad uscire da questa condizione di inferiorità, che penalizza innanzitutto il Paese impedendo governi efficaci. Il Pd può andare al confronto molto laicamente. Non è fedele di alcuna religione del maggioritario. Probabilmente la soluzione migliore dovrà essere cercata in una formula mista, con una componente proporzionale significativa e con fattori di disproporzionalità che aiutino a formare, attorno al leader del primo partito, una coalizione efficace di governo. Speriamo che il radicamento territoriale degli eletti venga sancito da collegi uninominali maggioritari (che funzionano in Germania, come in Francia, come in Gran Bretagna).
Sarebbe bello infine se la coalizione di governo fosse incentivata a formarsi davanti agli elettori attraverso il doppio turno. Ma per il Pd neppure il turno unico è una minaccia esistenziale. La minaccia piuttosto è un’altra: è la logica perversa del maggioritario di coalizione (peraltro sconosciuta nei Paesi occidentali). Questa sì corroderebbe la struttura del Pd minandone l’autonomia e la credibilità. Il maggioritario di coalizione riporterebbe per forza d’inerzia il Pd all’Unione. Invece un bipolarismo sano può essere ricostruito attorno a due forze con vocazione maggioritaria, lasciando alle forze intermedie la libertà di organizzarsi e di coalizzarsi. Con alcuni paletti: soglia di sbarramento significativa e nessuna pretesa di imporre una leadership senza che il relativo partito abbia conquistato il primato dei consensi. Ancora un mito da sfatare: per stabilizzare i governi vale molto di più la sfiducia costruttiva che le balle raccontate per vent’anni sul premier eletto dal popolo e unto dal Signore.

L’Unità 28.11.11