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"Ma l'emergenza non è finita", di Andrea Bonanni

L’ENNESIMO incubo della lunga notte dell’euro sembra dissolto. Il Parlamento di Atene avrà una maggioranza favorevole a mantenere gli impegni e a restare nella moneta unica. I cittadini greci hanno compiuto una scelta difficile e responsabile, come già due settimane fa gli irlandesi, quando avevano detto sì al referendum sul “fiscal compact”. Questa è certamente una buona notizia per i leader europei che oggi si presentano al G20 in Messico con una spina nel fianco in meno.
Diventerebbe però una catastrofe se li inducesse, anche solo per un istante, a credere che l’emergenza sia momentaneamente superata e ad abbassare le ambizioni sui passi da intraprendere al prossimo vertice di fine giugno.
Il messaggio che arriva da Atene, come quello partito da Dublino, apre uno spiraglio di speranza nel grande dibattito sulla contrapposizione tra democrazia e mercati che fa da sfondo alle convulsioni europee. Dopo aver assistito alla crescita esponenziale delle pulsioni populiste e nazionaliste alimentate dalla crisi economica, l’Europa può cominciare a sperare che la democrazia sia in grado di dare risposte adeguate anche a sfide complesse e difficili come è quella della crisi dei debiti sovrani. Di fronte alle sirene del populismo e della rabbia, i greci hanno scelto la strada più in salita, ma anche l’unica che mantiene aperte le speranze di un futuro diverso e migliore. Non era affatto scontato. E certamente una larga parte dell’establishment finanziario mondiale aveva scommesso su un esito diverso e più “facile”, speculando sul possibile contagio alla Spagna e all’Italia che una uscita della Grecia dall’euro avrebbe innescato.
Ora è probabile che la scelta filo- europea degli elettori greci riceva un qualche “premio” da parte dell’Ue. E già ieri il ministro degli esteri tedesco parlava della possibilità di allungare le scadenze nella marcia di risanamento imposta ad Atene in cambio del prestito che l’ha salvata dalla bancarotta.
Ma il vero premio a cui hanno diritto i greci, come gli irlandesi, come i milioni di europei che stanno affrontando sacrifici di cui si era persa la memoria dal dopoguerra, è quello di non vedere tradite le loro aspettative e la loro fiducia. Ad Atene come a Dublino, la gente ha detto sì a una politica di rigore che colpisce dolorosamente l’esistenza quotidiana di ciascuno, pur di salvare la moneta unica e l’appartenenza all’Europa. Ora dai leader europei deve venire una risposta adeguata, che garantisca alla gente, prima ancora che ai mercati, che la moneta unica sopravviverà alla tempesta perché i governi che ne sono responsabili
compiranno i passi necessari.
Questi passi sono stati indicati a grandi linee dal quartetto di saggi composto da Draghi, Van Rompuy, Juncker e Barroso, a cui i governi avevano dato mandato di definire una tabella di marcia per salvare l’euro. Essa prevede misure a breve, medio e lungo termine. Occorre una unione bancaria, che consenta di spezzare il circolo vizioso tra crisi dei debiti sovrani e crisi del sistema creditizio. Occorre una unione di bilancio, che riduca significativamente i margini di sovranità e di discrezionalità dei parlamenti nazionali sulla gestione delle finanze pubbliche. Occorre,
a più lungo termine, una vera unione politica che dia legittimità democratica alla gestione di un bilancio federale. Ma tutti questi passi potrebbero non bastare se non arrivassero, a breve, misure concrete in grado di dimostrare la volontà dei governi di procedere su questa strada. Le opzioni in questo campo sono molte: c’è il piano per la crescita ipotizzato da Hollande e che stanzierebbe 120 miliardi per investimenti produttivi; ci sono i mini euro-bond, soprannominati “euro-bills” per non contrariare i tedeschi; c’è il rafforzamento del fondo salva-Stati, chiesto a gran voce dagli americani; c’è la possibilità di nuove iniezioni di capitali da parte della Bce; c’è l’idea di un “serpentone” sui buoni del tesoro che limiti gli spread entro una fascia ragionevole, accarezzata da italiani e francesi.
Finora tutte queste idee si sono scontrate con i veti tedeschi. Ma, se il quartetto saprà inserirle credibilmente in una prospettiva di progressiva integrazione delle politiche economiche e di bilancio, difficilmente la Germania potrà continuare a dire solo e sempre «no». L’unico vero pericolo che può venire dal responso delle urne greche è che Berlino si illuda di aver superato un’ennesima emergenza e creda di poter ancora prendere tempo. Il tempo è scaduto. Ieri lo hanno spiegato gli elettori greci. Oggi lo spiegheranno i capi di governo del G20, americani in testa. Al prossimo vertice del 28 giugno toccherà a Draghi, Monti e Hollande farlo capire alla Cancelliera. Non sarà facile, ma non possono
permettersi di fallire.

da La Repubblica