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"Così i bambini del terremoto disegnavano la città perfetta", di Jenner Meletti

C’è un caldo che spacca, dentro le tende arriva a 50 gradi. C’è la paura delle scosse che non finiscono mai. La più pesante è arrivata proprio a mezzanotte, in un’ora vigliacca, perché è in quel momento che decidi se dormire in casa o in macchina e la botta del 3,2 ti toglie ogni coraggio. Ma oggi, a San Carlo — il paese inghiottito dal fango arrivato dal sottosuolo — si piange per una scuola, l’elementare “padre Accorsi”. Ci sono stati tutti in questo edificio rosso costruito nel 1935 e ricostruito nel 1949, dopo i bombardamenti della guerra. In piazza, a guardare i soldati del Genio Ferrovieri di Bologna incaricati di togliere libri e banchi e zaini e gli attrezzi della palestra ci sono i nonni, i loro figli e i nipoti, che chiedono spaventati: «Ma davvero la mia scuola la buttano giù?».
Due giorni ancora, il tempo del «recupero oggetti validi», poi le ruspe abbatteranno tutto. È passato un mese, dal terremoto, e il “funerale” della scuola elementare racconta il dolore di un terremoto che ha distrutto le vite di donne e uomini e poi si è accanito
contro i sopravvissuti. La scuola, in un paese, è la casa di tutti. «Io mi sto uccidendo», dice Roberto Lodi, il vicesindaco di Sant’Agostino che abita qui a San Carlo. «Sto coordinando i lavori per svuotare la scuola e mi sento morire dentro. La chiesa dove mi sono sposato non c’è più,adesso tiriamo giù anche la scuola che è stata anche mia. Riusciremo a tornare nelle nostre case, ma nulla sarà più come prima». I bambini delle terza e quarta elementare stanno in piazza, appoggiati alle biciclette. «Ha visto le classi? Ci sono i nostri disegni ». Entri nel corridoio e capisci perché l’edificio sarà abbattuto. «Il muro portante è spaccato — spiega il vigile del fuoco Gianluca Musitelli, arrivato da Venezia — e sotto il corridoio c’è il vuoto. Le fondamenta sono state rotte dal fango uscito dalla terra». Sembrano commossi, i soldati del Genio. Raccolgono pennarelli e quaderni dai piccoli banchi, staccano disegni dai muri. Forse ricordano i loro banchi di scuola. Solo i banchi nuovi saranno messi nella nuova scuola, prefabbricata e antisismica, che sorgerà proprio qui e sarà pronta a settembre. «Ma ha visto i nostri disegni?». Li hanno preparati negli ultimi mesi di scuola, quelli di terza e quarta elementare, quando San Carlo era un paese normale. «Il paese che vorrei», questo il tema dettato dalle maestre. I sogni dei piccoli sono ancora appesi ai muri. «Io vorrei un parco acquatico, una farfalla grandissima, una torre altissima, Natale ogni giorno con tanta neve intorno», ha scritto Sara. «Io metterei — scrive Marco — una piscina, una sala giochi carina, tante giostre divertenti e il mare con i salvagenti». Andrea, per fare bello
San Carlo, propone una pista da go-kart. Federico chiede «un pulmino per venire a scuola», Diana vorrebbe «vedere le montagne, sono alte e portano aria fresca a pulita». Beatrice invece non propone nulla. San Carlo le piace così com’è. «Il paese che vorrei — scrive — è quello in cui vivo. Con la mia famiglia, miei amici, e tutte le persone che mi vogliono bene». Quasi un sogno, oggi, portato via come gli altri dai camion Astra Smh del Genio.
Le strade che vanno verso Finale sono pieni di cartelli. «Vai piano, siamo già abbastanza scossi». Alla trattoria Canaletto, sulla provinciale, pavimento e tavoli si mettono a vibrare e l’oste subito rassicura. «È un camion, è solo un camion ». «Ecco perché abbiamo messo i cartelli. Ogni scossa è un colpo al cuore». A Buonacompra il campanile non c’è più. È stato “smontato”, pietra dopo pietra e i rottami ora sono in un cumulo accanto a quello della chiesa. Ma dieci famiglie che abitavano sotto il campanile possono tornare nelle loro case. Trentotto gradi, ieri nella bassa. «Io ho paura — dice Marco Cestari, responsabile della Protezione civile di Finale Emilia — che i bambini e i vecchi cadano a terra, collassati». Il montaggio dei condizionatori procede lentamente, perché — racconta un tecnico che sta collegando fili e tubi — le macchine sono quelle già usate all’Aquila e il 30% non sono funzionanti. «Un mese dopo — dice il sindaco Fernando Ferioli — siamo ancora in piena emergenza. Il polo industriale delle ceramiche è fermo all’80%. Il terremoto ha sollevato e spostato i forni di cottura, macchine delicatissime che non possono muoversi di un millimetro. Se non arriva la defiscalizzazione, qui non ci sarà nessuna rinascita». Tensione nelle cinque tendopoli, con duemila ospiti. «Non puoi stare un mese in tende da otto posti, senza privacy. Ci sono state liti fra gruppi di stranieri, marocchini e ghanesi. La cosa più importante, per eliminare le tensioni, è far riprendere il lavoro. Fra industria e commercio ho già 4.000 cassintegrati».
La voglia di ripartire c’è, ma spesso resta un desiderio. «Il negoziante che vuole riaprire si compra il container o la casetta di legno con soldi suoi e deve pagare mille euro per l’allacciamento alla luce e all’acqua. Io come sindaco non ho poteri veri. Se ordino lavori di consolidamento in un edificio pericolante e il proprietario mi dice che non ha soldi, che posso fare? C’è una torretta piena di crepe che impedisce l’accesso ad altre case. Se ordino l’abbattimento e il proprietario si oppone, vado ad avviare una lite giudiziaria che durerà anni? Chiediamo la defiscalizzazione perché gli imprenditori possano investire qui i soldi delle tasse.La prima rata Imu è sospesa, la seconda, a settembre, no. Come posso chiedere soldi ai cittadini che non hanno case, nemmeno una delle dieci chiese della città, neanche un ospedale? Come Comune continuo a distribuire almeno 5.000 pasti al giorno nelle tendopoli e non so ancora come faremo a pagare. Fra un mese avrò finito anche i soldi degli stipendi ai dipendenti comunali, che qui lavorano giorno e notte». Nella piazza di San Carlo arrivano altri bambini e altri anziani. Ricordano la bidella Rosina Bordasi: «Si alzava alle cinque per mettere il carbone nella caldaia e con un’ampollina metteva l’inchiostro nei calamai». Suo figlio Giorgio è ancora bidello della scuola. Gli chiedi come vive un giorno come questo. Si mette a piangere.

La Repubblica 20.06.12