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"Perché l’emergenza porta alla rimozione", di Mauro Magatti

Di fronte ad un terremoto che non passa e all’impotenza che suscita una terra improvvisamente diventata inabitabile, è lecito porsi la domanda: quanto a lungo può durare lo stato di emergenza? Quanto a lungo si può contare sull’emozione suscitata da un disastro naturale che ci colpisce o da un problema sociale che ci affligge? Con il loro modello individualistico e tecnocratico, le democrazie avanzate sono bene equipaggiate per gestire l’emergenza. La macchina dei soccorsi ci rassicura sul fatto che nessuno, di fronte ad un disastro, è lasciato solo.
Più difficile è la gestione di un problema che oltrepassa i limiti, assai ristretti, della notiziabilità. Nel giro di qualche giorno da quando “perde” la prima pagina, qualunque tragedia pare destinata a venire riassorbita nel retroscena oscuro dell’indifferenza. A quel punto, già “digerita” dall’opinione pubblica, insorgono mille difficoltà: i fondi stanziati vengono tagliati, la prevenzione rinviata, gli interventi di contrasto sospesi.
La difficoltà nasce dal fatto che la durata di un problema – per non parlare della sua cronicità – contraddice la velocità, l’istantaneità, l’emotività di cui è fatta la nostra vita sociale. Di fronte ad un problema quello che cerchiamo è una risposta rapida ed efficace. Ma quando il trauma non può venire riassorbito in poco tempo, all’emozione subentra quella straordinaria qualità umana che è la capacità di adattamento. Se non si fosse riplasmato di fronte al mutare delle situazioni, l’essere umano non si sarebbe mai potuto affermare.
Occorre, però, distinguere due opposte modalità adattive. La prima è quella della rimozione che consiste nel negare la realtà. Assorbita la reazione emotiva, scartata la realistica possibilità di poter tornare alla situazione preesistente, tutto ritorna come prima. La vita riprende il suo corso. Da molti punti di vista, la rimozione funziona assai bene, permettendo di assorbire situazioni critiche. Tuttavia, di norma, tale soluzione scarica il costo dell’adattamento su una minoranza, da cui la maggioranza riesce a prendere le distanze. Va da sé che, nelle nostre società grandi e anonime, la rimozione finisce per essere la soluzione più diffusa, anche perché è la meno impegnativa.
Il problema è particolarmente rilevante nelle democrazie che, sempre meno corpo e sempre più semplice mediazione di interessi, tendono a prendere la strada facile della rimozione dimenticandosi in breve tempo dell’emozione che pure aveva alimentato un sincero pathos partecipativo. Anche di fronte ai fatti più gravi – non solo i disastri naturali, ma pure le offese più lesive del nostro senso della legalità – passata la reazione emotiva, i cittadini delle democrazie avanzate paiono incapaci di tener desta la loro attenzione. Il problema è che la rimozione, quando è sistematica, è un virus che, negando l’idea di cittadinanza, mina la democrazia.
L’alternativa è trasformare quel disastro, quel problema in una sfida da affrontare insieme allo scopo di cambiare l’organizzazione sociale in quanto tale. Il passaggio dalla rimozione all’innovazione può funzionare solo a condizione che la sfida non sia solo di qualcuno, ma di tutti: sfida non per una parte, ma per tutto il corpo sociale. Un modello che tende a prevalere quando in pericolo è un’intera collettività, come le guerre.
Più difficile è che esso prevalga quando il disagio è più circoscritto. In questi casi, occorre far conto su due risorse.
La prima è la virtù civica della partecipazione. Anche se allergiche a considerazioni di ordine morale, le democrazie avanzate non possono pensare di non pagare i costi della rimozione senza riconoscere e valorizzare la qualità del cittadino che si sente responsabile della condizione di sofferenza altrui. L’adattamento attraverso la sfida diventa plausibile se è presente, nel tessuto sociale, la disponibilità a non considerare il destino dell’altro del tutto indipendente dal proprio.
Tuttavia, come moderni sappiamo che la virtù da sola non basta. Dobbiamo far conto su di essa, ma anche sostenerla. Stimolarla. Ed ecco allora la seconda risorsa: la capacità di trasformare il problema di pochi in una occasione di innovazione per molti (al limite per tutti). La rimozione, infatti, prevale quando un problema viene affrontato in chiave puramente riparativa, come un costo. L’innovazione, invece, trova la sua strada quando da un problema sociale o un disastro ambientale nasce lo stimolo per migliorare i rapporti e gli scambi all’interno di gruppo e con l’ambiente circostante.
Si pensi al caso del terremoto. Se si vuole evitare il piano inclinato che porta alla rimozione, occorre promuovere azioni che, al di là dell’emergenza, facciamo leva su quelli che, mostrandosi come problemi, possono trasformarsi in spunti per l’innovazione: si tratta, invece di edificare baracche, di sperimentare nuovi materiali antisismici; invece di alimentare la burocrazia, di mettere a punto procedure più snelle e affidabili per gli appalti pubblici; invece di limitarsi all’invio di denaro, di arrivare a promuovere nuove forme di finanziamento di medio lungo termine; invece di aumentare le tasse, di lanciare nuove modalità di assicurazione collettiva.
Durante la Grande Recessione, Keynes sostenne che, per uscire dalla crisi, lo stato avrebbe dovuto creare posti di lavoro mandando i disoccupati a scavare buche per poi riempirle. Oggi, nel mezzo di una Grande Contrazione, la crescita può essere rilanciata reimparando a investire le risorse non infinite in modo efficiente, finalizzato e intelligente in quei settori che fanno crescere la collettività nel suo insieme. La condizione per la ricostruzione è quella di tornare a distinguere un costo da un investimento, passando da un modello centrato sul consumo ad uno centrato sulla produzione di valore.

La Repubblica 26.06.12