attualità, politica italiana

"Tra Berlino e Berlusconi", di Massimo Giannini

Sotto il vulcano della crisi globale, la politica non rinuncia a consumare i suoi rituali più annosi e pericolosi. È la settimana cruciale: si giocano i destini dell’Eurozona e della moneta unica. Eppure non si vede un’establishment all’altezza della Storia. I leader europei, a partire dalla Merkel, si trincerano negli «opposti nazionalismi», che nessun Patto di Roma è sufficiente a spazzare via. Ribadire che «l’euro è irreversibile» non serve a niente: è puro esorcismo. Per salvare la costruzione europea, accompagnando quella federale a quella monetaria, c’è bisogno di statisti, non di esorcisti.
I partiti italiani, a partire dal Pdl, non resistono al canto delle sirene di una Vecchia Repubblica, che ripropongono il tema inquietante delle elezioni anticipate. Proprio in questo momento, che imporrebbe il massimo di coesione nazionale, la «Grosse Koalition de noantri» minaccia di rompersi e si lascia tentare dal voto subito. Stretto in questa tenaglia, alla vigilia del vertice europeo di dopodomani, c’è Mario Monti. Le cancellerie del continente guardano a lui come il mediatore dal quale dipende il successo dell’operazione. Le segreterie dei partiti guardano a lui come il catalizzatore sul quale scaricare le colpe di un eventuale fallimento.
Il «neuro-delirio» che scuote Bruxelles rischia di travolgere Roma. Giorgio Napolitano è preoccupato, Monti lo è ancora di più. A rasserenare gli animi non basta l’asse istituzionale tra Quirinale e Palazzo Chigi. E non basta nemmeno la chiamata alle armi della fiducia, con la quale il governo dovrà portare a casa la riforma del mercato del lavoro prima di giovedì. Serve un altro vertice di maggioranza, per disinnescare le troppe «mine vaganti» che rischiano di far esplodere la crisi. Ma non è affatto sicuro che basti. Nel Palazzo si moltiplicano i segnali di nervosismo di fronte a un governo che sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. Nel Paese si acuisce il disagio di fronte a una recessione che morde la carne dei cittadini, e a una condizione precaria che non colpisce più solo i figli, ma anche i padri.
Solo un ceto politico cinico e irresponsabile, che ha ormai perso del tutto i contatti con la realtà, può pensare di affrontare questa drammatica emergenza con gli strumenti del passato. Come se Monti fosse Rumor, e un governo di coesione nazionale si potesse avvicenvanche
dare con un qualunque governo balneare. Il voto «sotto la canicola» sarebbe una catastrofe inimmaginabile per l’Italia. L’hanno capito persino quei disinvolti cantori del dannunzianesimo berlusconiano, che alla vigilia della rovinosa caduta del dicembre scorso invocavano il voto «sotto la neve». C’è una domanda capitale, che tuttora non trova risposta: cos’hanno da proporre i partiti della «strana maggioranza», in alternativa al governo «di scopo» del Professore?
Il Pdl è squassato da un’improbabile e improponibile resurrezione del Cavaliere. L’Alba Dorata berlusconiana promette due cose. Una patetica guerra contro la Germania (proclamata da un ex premier che si è dimostrato capace al massimo di qualche penoso «cucù» all’indirizzo della signora Merkel). E poi un’autarchica battaglia contro l’euro (combattuta da un capo di governo che per tre anni ha negato la crisi dicendo che «i ristoranti sono pieni»). Questa re-
populista, che lascia il povero Alfano nudo come un re Travicello, ha un respiro cortissimo. Può risvegliare gli umori di un pezzo di Nord che si sente tradito e impaurito. Può infiammare qualche anima bella del «berlusconismo da
combattimento», nostalgica del bel tempo che fu. Può riaggregare qualche anima persa del leghismo, orfana di Bossi e divisa su Maroni. Ma è una proposta politica disperata. Non ripetibile nella forma, non ricevibile nella sostanza. A meun’alleanza
no che qualcuno si illuda di poter «vendere» l’Italia nel mondo con la vecchia maschera di Papi-Silvio, e magari con le «facce nuove» di Gerry Scotti e Daniela Santanchè.
Il Pd è logorato da un sostegno onorevole, ma sempre più oneroso, nei confronti del governo tecnico. Bersani è riuscito a tenere abbastanza compatto il partito, su un fronte di lealtà personale verso Monti e di responsabilità istituzionale verso il Paese. C’è la scheggia impazzita di Renzi, ma per ora non è la sospetta «intelligenza col nemico» del sindaco di Firenze a mettere a repentaglio la linea «montiana» del partito. Certo, l’adesione a un programma di governo emergenziale, che di fatto ricalca la lettera di agosto della Bce, ha imposto e impone tuttora un costo elevato, in termini di consenso. Per quanto i sondaggi lo indichino come il primo partito italiano, il Pd non supera il 25% delle intenzioni di voto. L’apertura di gioco di Casini, che propone
strategica tra progressisti e moderati, può essere una svolta addirittura decisiva per ridefinire il perimetro del centrosinistra riformista che verrà. Ma al momento, per quanto suggestionato dalla certezza di una vittoria elettorale quasi certa, Bersani non può ancora offrire agli italiani una piattaforma solida e durevole sulla quale costruire il governo del Paese. Con tutto il rispetto: l’Italia non si può presentare in Europa con i ministri vendoliani, e meno che mai dipietristi.
Questo governo non ha alternative. Monti, con tutti i suoi limiti e i suoi errori, è quanto di più credibile possa offrire l’Italia di oggi. Ma sarebbe sbagliato pensare che debba durare solo per questo. Il suo governo è utile se decide, e se fa le riforme che servono. Sul «Times» Bill Emmott ha scritto che «restare alla guida del Paese in modo inconcludente non servirà a salvare l’Italia o l’euro». È la verità, pura e semplice. Ed è ora che il Professore la sbatta in faccia, con forza, a tutti i “fondamentalisti riluttanti” che promettono di aiutarlo. Dalla Cancelliera di Berlino al Cavaliere di Arcore.

La Repubblica 26.06.12