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“Un patto chiaro o sarà il collasso”, di Claudio Sardo

La ferita profonda, inferta alla nostra dignità nazionale dal caso di Alma Shalabayeva, ha indebolito il governo. Ma ad essere sinceri non è il solo motivo di affano per Enrico Letta, stretto da un lato da una crisi sociale drammatica e dall’altro da una maggio- ranza senza alcuna solidarietà politica. Il bisogno di governo, che, oltre la coltre di sfiducia e di rabbia, il Paese esprime in ogni suo punto di sofferenza, non è di per sè sufficiente a garantire stabilità ed efficacia.

E tanto meno lo è in ragione dei vincoli che impongono ancora politiche restrittive nel 2013, e aprono (forse) qualche spiraglio solo nel prossimo anno. Per tornare a respirare abbiamo assoluta necessità e urgenza di un cambio delle politiche. Abbiamo bisogno di un’Europa che pensi e agisca diversamente da come ha fatto finora. E dobbiamo fare con coraggio la nostra parte, costruendo una nuova, vera alleanza per il lavoro, che sappia incidere sugli interessi e i poteri reali, riducendo i vantaggi delle rendite finanziarie e di quelle corporative. Non torneranno gli equilibri di prima della crisi. Per difendere il modello sociale europeo dobbiamo anche saperlo cambiare, rendendolo più competitivo e più egualitario.

Si dirà: ma questo è il programma di un governo politico, espressione di una maggioranza coesa. Come si può anche solo immaginare che un esecutivo di «necessità» svolga una simile missione? Eppure la «necessità» è questa. Ogni rinvio rischia di bruciare opportunità per il futuro. Se le elezioni fossero una via praticabile, dovrebbero essere prese in seria considerazione. Ma non lo sono. E non soltanto perché il ricorso troppo frequente al voto anticipato ormai pesa come una zavorra sulla credibilità dell’Italia, e persino sulla stabilità dell’ordinamento (questione assai rilevante per gli investitori). Il problema è che il nostro sistema politico-istituzionale è al collasso. La legge elettorale è indegna, incostituzionale, e per di più non garantisce governabilità. Ma bisogna essere sinceri: la stessa riforma elettorale, pur necessaria, da sola non garantisce nulla. Se non si modifica il bicameralismo paritario, se non si rafforza il governo con istituti come la sfiducia costruttiva, se non restitusce al Parlamento e ai partiti quei valori costituzionali sottratti dalla seconda Repubblica, qualunque vincitore delle elezioni verrà travolto dal trasformismo, dalla frammentazione politica, dal notabilato locale.
Questo è il passaggio infernale per l’Italia. Sembra un’impresa impossibile, essendo Pd e Pdl nella stessa maggioranza e i Cinque stelle «indisponibili a tutto». Sembra impossibile anche perché si fatica a pronunciare parole di verità. Il problema di oggi non è l’«inciucio» che Grillo denuncia e che in tutta evidenza non esiste. Il problema non è neppure cercare, come qualcuno favoleggia a destra, una «pacificazione» che non avrebbe altro senso se non legittimare una fuoriscita dall’orizzonte costituzionale. Il problema è che il governo poggia su una maggioranza priva di uno straccio di intesa. Per questo Letta è continuamente esposto agli sgambetti, ai ricatti, alle minacce dei falchi della destra (e di Berlusconi che li usa).
Questo governo è nato per affrontare l’emergenza sociale e democratica, per mettere il lavoro in cima all’agenda italiana ed europea, per riformare le istituzioni (e la legge elettorale) in modo da restituire ai cittadini il diritto di scegliere. Questo governo è nato per arrivare alla fine del 2014 e far celebrare il referendum sulle modifiche costituzionali al termine della presidenza italiana dell’Ue. Ma siamo al bivio decisivo. O la maggioranza fissa alcuni punti di intesa – pubblicamente e solennemente – lasciando alla libertà del Parlamento tutto ciò che non rientra nel protocollo di accordo, oppure condanna il governo ad una rapida asfissia. La separazione tra politica e giustizia è ovviamente una premessa: qualunque sia l’esito dei processi di Berlusconi, le sentenze saranno rispettate da governo e maggioranza. Se qualcuno nel Pdl la pensa come Brunetta, lo dica subito: una scelta eversiva dopo un’eventuale condanna del capo, segnerebbe automaticamente la fine del governo.
Ma, qualora il principio della separazione dei poteri fosse rispettato, bisognerebbe comunque definire cinque-dieci punti programmatici di compromesso. Uno di questi deve riguardare le riforme istituzionali: meglio sarebbe approvare subito una legge di salvaguardia che archivi il Porcellum prima della pronuncia della Consulta, tuttavia va chiarito al più presto che la via semi-presidenziale è sbarrata. La sola riforma realistica è il rafforzamento del governo parlamentare. Si lavori a questo con ritmi incalzanti e si recuperi all’opera di manutenzione (e di difesa dei principi costituzionali) quanti ora sono alla finestra, nel timore di un esito presidenzialista e plebiscitario. Si fissino le priorità sul lavoro, chiamando imprese, sindacati, Terzo settore, cooperative e i tanti corpi intermedi che vogliono dare una mano all’Italia. E si finisca con il tormentone dell’Imu: le giuste esenzioni per i ceti più poveri e per le classi medie non possono esonerare i più ricchi da un equo contributo per la ripresa del Paese. Non è facile accettare una così strana maggioranza: ma senza parole di verità e di chiarezza, non costruiremo domani un bipolarismo competitivo. E la «necessità» dell’Italia verrà ancora tradita.

L’Unità 25.07.13