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"La città dei bambini", di Maria Novella De Luca

«Quando è nata Viola, la mia prima figlia, ho scelto di tornare qui, dove ero cresciuta. Stessi nidi, stesse scuole, stesso mondo a misura di bambino. E di certo poter contare su una vera rete di sostegni mi ha aiutato a diventare madre per la seconda volta, ed è arrivato Jacopo, che oggi ha 18 mesi…». Laura Pedroni è una ex bambina degli “asili più belli del mondo”, gli asili di Reggio Emilia, luoghi di architetture luminose e salda pedagogia, cuore e fulcro di una città dove la demografia ancora tiene e i figli continuano a nascere. Echi di un baby boom che fino al 2011 ha fatto impetuosamente crescere la popolazione 0-6 anni, grazie ad una forte immigrazione residente, ma anche, dice Claudia Giudici, che presiede l’istituzione “Scuole e nidi d’infanzia” del comune di Reggio, «grazie a molte coppie italiane che hanno continuato non solo ad avere figli, ma anche ad averne due o tre». Piccoli e piccolissimi che nel giardino profumato di tigli del “Gianni Rodari”, uno dei tanti nidi di Reggio, giocano negli atelier della luce, tra spazi trasparenti dove ogni oggetto compreso il cibo è una esperienza delle mani, degli occhi, dei sensi. E cioè i “cento linguaggi del bambino” su cui si basa la filosofia di questi luoghi unici, a volte incantati.
L’Italia è sull’orlo di una catastrofe demografica, hanno scritto i ricercatori nell’ultimo rapporto Istat. E allora è utile tornare in una città simbolo del welfare, ma anche studiata in tutto il mondo per i suoi modelli educativi, il famoso “Reggio approach” avveniristicamente pensato dal pedagogista Loris Malaguzzi negli anni Sessanta, per dare i giusti contorni alla crisi della natalità. Perché oggi in cima alle (magre)
classifiche delle culle meno vuote, ci sono soltanto regioni dove i servizi tengono e la disoccupazione è un po’ meno amara che altrove. I dati sono chiari: al primo posto c’è Bolzano, il cui tasso di fecondità è di 1,67 figli per donna, poi Reggio Emilia, con 1,63, e Trento, 1,60. Contro il tasso nazionale dell’1,42. Numeri complessi che raccontano quanto ospedali, scuole, consultori possano fare la differenza nella decisione di costruire una famiglia.
Laura Predoni, mamma di Viola e Jacopo, master in Scienza della Comunicazione, lavora nel centro “Re Mida” che si occupa del riciclo dei materiali di scarto delle industrie. «Ho frequentato negli anni Settanta i primi nidi e scuole dell’infanzia di Reggio, il “Cervi” e poi l’asilo “Tondelli”, lo stesso in cui oggi va mia figlia. Quando sono rimasta incinta vivevo e lavoravo a Milano, ma ho deciso di tornare qui: la mia esperienza di bambina è stata così bella che non volevo privarne i miei figli. Tanto che a volte i miei ricordi si confondono con i loro racconti. Qui si ha la possibilità di mandare i figli al nido fin dai tre mesi, sicuri però che non sarà un parcheggio, ma un’esperienza educativa, estetica, di relazione. E per il lavoro dei genitori è fondamentale. Certo la crisi c’è e si sente, ma il sistema per fortuna ancora regge». Sulla prima infanzia i numeri sono concreti: il 41% dei “baby born” da zero a tre anni a Reggio Emilia frequenta i nidi, contro una media nazionale del 15%.
«Certo che fatichiamo — ammette la pedagogista Claudia Giudici — nonostante i tagli abbiano risparmiato il campo educativo. Ma mantenere standard così alti, dove il bambino viene considerato prima di tutto un cittadino fin dai suoi primi mesi, è molto costoso. Le iscrizioni restano stabili perché anche le mamme disoccupate preferiscono mandare i piccolissimi al nido. Nel resto d’Italia invece la precarietà ha creato una fuga dai servizi
». Dunque un welfare intaccato ma che resiste. Non solo. «Le nostre scuole — aggiunge Giudici — coinvolgono moltissimo i genitori. E sono diventate un argine sociale. Ho visto diversi padri disoccupati ritrovare un senso di sé nella comunità degli altri genitori ».
La natalità cala anche qui, eppure Reggio prova a scommettere, ripartendo proprio dalle “culle”. Alla fine del 2014 partiranno infatti i lavori di un nuovo e grande ospedale, il “Mire”, dedicato a gravidanza, neonatologia e pediatria. Martino Abrate è il responsabile del dipartimento di ginecologia e ostetricia del “Santa Maria Nuova”, vicino al quale sorgerà il “MiRe”. «Il nome è una sigla che vuole dire Materno-Infantile di Reggio, ma evoca anche qualcosa che guarda lontano. Noi veniamo da un boom delle nascite, nel 2010 qui sono stati fatti 2.550 parti, dei 5.150 di tutta la provincia. Nel 2013 il numero è sceso a 4.500 nascite, di cui il 30% da donne straniere. Sono numeri ancora molto alti se visti in percentuale sulla popolazione, con un basso ricorso ai cesarei, e la volontà di far vivere la gravidanza nel modo più fisiologico possibile ». Il “MiRe”, progettato anche in collaborazione con “Reggio Children”, dovrebbe integrare tutto questo. «I bambini nascono dove c’è il welfare» ribadisce Abrate, «è l’esperienza di Reggio, ma i primi cali di natalità sono già evidenti, addirittura tra le madri immigrate».
L’odore del cibo cucinato a vista accompagna i giochi dei bambini del nido “Rodari”. Passato di verdura con crostini, crocchette di patate, frutta. La cucina è un luogo aperto, un “atelier del gusto”, dove si può entrare, guardare, assistere alla preparazione dei cibi. E le cuoche sono ben presenti nei ricordi degli ex bambini che negli anni Settanta iniziarono a frequentare i primi asili del “metodo Malaguzzi”, l’asilo Diana, il Cervi, il Tondelli, in tutto sono ventotto. Andrea Canova, classe 1969, padre di due bambini, dice che oggi quando entra nella scuola “Anna Frank” e rivede le sue foto da piccolo in quegli stessi ambienti, sente di entrare in una storia “che è stata ed è ancora eccezionale”. «I figli scoprono che anche tu sei stato piccolo proprio lì, e questo crea una memoria condivisa, di storie, di valori. Ma la cosa più forte è la partecipazione che la scuola ti chiede, ed è un modo per imparare a prendersi cura dei propri bambini. La mia compagna era restia all’idea del nido. Poi però le ho raccontato la mia esperienza, le ho parlato di Malaguzzi, e oggi è entusiasta. Standard così alti però non possono andare d’accordo con tagli sempre maggiori e con la precarizzazione degli insegnanti».
Un mondo in bilico dunque. Che ancora regge ma chissà. Maddalena Tedeschi, pedagogista, coordina diversi nidi, tra cui quello dedicato a Gianni Rodari, le cui storie sono raccontate su pannelli trasparenti nell’agorà della scuola, una sorta di “piazza” per bambini, genitori, insegnanti. Mostra gli atelier della luce, gli strumenti musicali costruiti con materiale di riciclo, le tavole luminose dove scoprire il retro di una foglia o di un fiore, i video fatti dai piccolissimi. «Noi non siamo contro la tecnologia, se guidata è una grande fonte di scoperte… Molte coppie — dice Tedeschi — mi hanno raccontato di essersi
decise a fare anche il terzo figlio, perché potevano contare sugli asili e sul welfare di Reggio. E in tanti si sono trasferiti qui per avere questi servizi. La nostra idea è che si possa diventare cittadini liberi partendo dall’asilo nido. Forse è per questo che tutti gli ex bambini diventati genitori continuano a mandare i loro figli proprio da noi».

La Repubblica 06.06.14

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La ricetta vincente del nido per sconfiggere la crescita zero”, di CATERINA PASOLINI

REGGIO Emilia, con i suoi asili nido modello, nasconde la ricetta vincente per l’Italia a crescita zero e per un futuro di successi dei suoi piccoli abitanti. «Avere scuole dedicate alla primissima infanzia facilita la decisione di avere figli, ma soprattutto il domani dei cittadini dipende da cosa fanno e dove trascorrono i primi mille giorni di vita». A spiegarlo convinta Daniela Del Boca, docente di economia politica a Torino, che da anni studia il rapporto e l’influenza dei nidi sulla riuscita nella vita e fa un appello: «Bisogna investire sul capitale umano il prima possibile, rende. E i nidi sono un buon progetto che aiuta ad evitare le disuguaglianze ma soprattutto crea adulti più aperti verso il mondo, capaci di prendere voti migliori a scuola e avere lavori più remunerativi rispetto a chi è rimasto a casa fino a 3 anni».
Per questo in Emilia si fanno più figli?
«Sarà un caso ma non mi stupisce. Lì c’è assistenza, ci sono nidi pubblici di alta qualità con orari e tipologie per mamme che lavorano. E andare al nido fa bene: non è, come alcuni pensano, solo un comodo parcheggio per i piccoli mentre i genitori stanno in fabbrica o in ufficio».
Non solo parcheggi?
«Assolutamente no. Sono soprattutto luoghi di esperienze che cambieranno la vita dei bambini portandoli ad avere anche buoni voti, migliori lavori. Lo dicono le statistiche».
Meglio di nonni e baby sitter?
«Gli studi che abbiamo fatto in Italia ma anche le esperienze in Inghilterra e Usa dimostrano voti più alti tra i ragazzi che sono stati al nido pubblico rispetto a chi, fino a tre anni, è rimasto a casa guardato da parenti o persone pagate per farlo. Ovviamente parliamo di nidi di alto livello, come quelli di Reggio Emilia».
I piccoli vanno meglio a scuola?
«Mettendo a confronto diverse fonti statistiche, come i test Invalsi sul livello di preparazione per la seconda e la quinta elementare, ciò che emerge in modo netto sono i migliori risultati in italiano e matematica dei bambini che nella prima infanzia avevano frequentato un nido».
Solo voti migliori?
«No. Ora stiamo lavorando ad un’indagine retrospettiva tra gli abitanti di Reggio Emilia, Parma e Padova domandando se sono andati al nido e confrontando poi le risposte con l’andamento della loro vita. Non abbiamo ancora dati definitivi ma la tendenza è chiara: chi nei primi mille giorni di vita è stato fuori casa è più aperto, ha più amici, maggior capacità di relazionarsi col mondo».
Cosa cambia tra casa e nido?
«Tendenzialmente ormai sono tutti figli unici con genitori fuori per lavoro tutto il giorno, quindi andare al nido è la loro prima occasione di socializzare con i coetanei, li porta finalmente a confrontarsi con altri bambini, a imparare giochi complessi e non sono solo di coppia ma anche a vivere ruoli, compiti, esperienze più aperte e stimolanti. Tutto questo apre la mente, rende più socievoli».
La socievolezza porta a buoni voti?
«Nei vari studi americani c’è una correlazione evidente tra l’altro grado di socialità e i buoni risultati scolastici. Le ricerche sui servizi per l’infanzia, dimostrano quanto sia importante l’investimento educativo nei primi anni di vita, come ha evidenziato il premio Nobel per l’economia James Hackman, parlando dei benefici dell’investimento in capitale umano».
Investire prima contro le disuguaglianze?
«Sì. Programmi mirati possono contribuire a dare uguali opportunità a bambini provenienti da contesti svantaggiati. L’investimento nei primi anni di vita ha poi rendimenti più elevati perché i periodi di fruizione sono più lunghi rispetto agli investimenti fatti più tardi e costi minori perché non devono rimediare a danni già avvenuti, come l’abbandono scolastico e la disoccupazione».
Peccato che in Italia ci siano pochi nidi pubblici.
«Il problema qui è lo scarsissimo sostegno pubblico alla crescita dei figli. L’offerta di nidi pubblici è tra le più basse d’Europa: solo il 17 per cento dei bambini sotto i tre anni ha un posto al nido contro il 35-55 per cento della Francia e dei paesi nordici. In termini di spesa, l’investimento pubblico per i bambini è del 25 per cento inferiore a quella dei paesi Ocse».

La Repubblica 06.06.14