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"Ma il muro del malaffare sta crollando", di Luigi La Spina

Prima, lo sconcerto, per la ripetitività, quasi settimanale, con la quale esplodono in Italia clamorosi casi di corruzione politica. Poi, l’indignazione per il pervasivo dilagare di un malaffare da cui non sembra essere escluso nessun centro di potere, nazionale o locale, e che contagia l’intero arco dei partiti. Infine, la sfiducia per il dover constatare, ancora una volta, come proclami di assoluta severità, leggi che prescrivono rigorosi controlli, regolamenti amministrativi che impongono onerose e lunghe trafile burocratiche continuino a lasciare, ai ladri di soldi pubblici, mani sostanzialmente libere di delinquere.

Sono questi i sentimenti con cui l’opinione pubblica segue la catena di scandali che le cronache giudiziarie, da ogni parte d’Italia, rivelano. La coincidenza temporale con cui la magistratura riesce a intervenire per far fronte al fenomeno della corruzione politica e para-politica nel nostro Paese, però, dovrebbe indurre a una riflessione, preoccupata sì, ma forse non del tutto priva di qualche speranza.

Sembra sgretolarsi, infatti, quel muro di complicità, di interessi, di protezioni, di omertà che ha permesso a un ceto di politici, alti burocrati, vertici finanziari e bancari, giudici di corti amministrative e contabili, membri di autorità indipendenti, con una manovalanza di collaudati procacciatori d’affari, di costituire «cupole» di potere delinquenziale, inossidabili rispetto a qualsiasi cambiamento governativo e inscalfibili da qualunque controllo di legalità. Da decenni, questi centri di malaffare hanno dominato e imposto la loro volontà su tutte le opere pubbliche avviate in molte città e in varie regioni del nostro territorio.

Gli esempi sono illuminanti, basta partire dalla capitale, dalla rete della cosiddetta cricca «Balducci e Anemone», rivelata dalle indagini sullo scandalo della ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila. Si può proseguire dalla signoria esercitata dalla Carige e dal suo dominus assoluto, Giovanni Berneschi, sulla Liguria, con l’appoggio dei fratelli Scajola e da quella del Monte dei Paschi su Siena, sotto il ferreo controllo della sinistra storica, padrona in quella città. Si può continuare con l’ex governatore del Veneto, il forzista Giancarlo Galan, per ben tre volte a capo della Regione, dotato di una tale consapevolezza di sé, del suo potere e di una tale impudicizia politica da intitolare, senza alcuna autoironia, una sua autobiografia, uscita nel 2008, «Il Nordest sono io». Per arrivare alla rete affaristica che aveva costituito l’ex presidente della provincia di Milano, il Pd Filippo Penati, svelata dalle inchieste che l’hanno costretto all’abbandono della vita politica. Infine, come summa esemplificatoria del sistema corruttivo politico che ha dominato l’Italia negli ultimi decenni, si deve citare il caso dello scandalo Expo, dove la persistenza di personaggi come Greganti e Frigerio al centro del malaffare lombardo rappresenta, del tutto plasticamente, la granitica invulnerabilità di tali «cupole» del potere delinquenziale.

È probabile, allora, che l’incalzante smantellamento di queste capitali della corruzione politica, nazionale e locale, a cui stiamo assistendo, da parte delle inchieste giudiziarie di queste settimane, sia frutto di una certa rottura dei patti di complicità che legavano i suoi reggitori. Delazioni, confessioni, ammissioni aprono improvvisi varchi in quel muro di impenetrabilità che finora aveva resistito all’intervento della magistratura, forse proprio perché è cominciato un rinnovamento di ceto politico, sia a sinistra, sia a destra che fa venir meno le garanzie di protezione da parte della tradizionale classe politica. Una classe politica, quella della cosiddetta «Seconda Repubblica», tanto, a parole, impegnata in una guerra permanente tra i due schieramenti, quanto, nei fatti, legata a complicità trasversali occulte, in un costume di malaffare dilagante che coinvolge anche la società civile in pesanti responsabilità.

Un giro d’orizzonte nell’Italia di questi vent’anni vede a Roma, a Milano, a Genova, a Siena, nel Veneto come in Campania o come in Sicilia, una casta di ceto politico sempre legata agli stessi personaggi che, magari, si alternano sulle principali poltrone di potere, ma che, anche dopo le periodiche sconfitte elettorali, non escono mai dalla scena pubblica e, soprattutto, mai dal sottogoverno affaristico e clientelare. Si direbbe una complicità politico-generazionale che si avvale di una esperta rete di collaborazioni, attive o soltanto omissive, nei ministeri, nella comunità bancaria e finanziaria, tra i vertici delle forze dell’ordine, nelle alte magistrature civili, penali, contabili e amministrative. È possibile che in tale rete di relazioni, fondate su una lunga consuetudine di amicizie interessate allo scambio di favori e di denaro e, quindi, tesa alla ostinata conservazione dei privilegi corporativi, si sia diffusa la consapevolezza di un cambio di stagione ormai inevitabile e imminente. E sia partito, come sempre succede, il disperato «si salvi chi può».

La Stampa 06.06.14