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"Speranza contro realpolitik: la guerra dei figli di Abramo", di Claudio Sardo

Spes contra spem, avrebbe detto Giorgio La Pira. Quel passo della lettera ai romani di Paolo di Tarso era diventato per lui il motto della profezia che genera politica, della fede religiosa che si incarna nelle contraddizioni del presente, della storia che Dio ha deciso di condividere con la libertà degli uomini. La speranza contro la speranza. Ovvero, la forza di osare ciò che appare impossibile. C’era questo azzardo, questo sguardo oltre l’orizzonte, questo desiderio rivoluzionario e in apparenza irragionevole, nell’incontro di preghiera per la pace che Papa Francesco ha voluto organizzare con Simon Peres e Abu Mazen nella «sua casa», ieri all’imbrunire. È stato emozionante, commovente, vedere l’abbraccio tra i presidenti di Israele e dell’Autorità palestinese, ascoltare le loro parole dopo le invocazioni di perdono e le letture di testi ebraici, cristiani, musulmani. Eppure, nonostante lo storico incontro, siamo a un punto morto dei negoziati israelo-palestinesi. La pace è lontana, anzi talvolta pare scomparsa dall’agenda diplomatica. E le tensioni sociali, i muri, le occupazioni militari allargano quei giacimenti di odio, su cui poggia il Medio Oriente e che il mondo, dolosamente, sottovaluta. Anche questo lacerante conflitto tra la speranza di Roma e la sofferenza di Gerusalemme colpiva ieri nel profondo.
I cinici diranno che è stata una vana esibizione. I realisti
e i diplomatici diranno che la forza di gravità della politica è così grande in quel punto del pianeta che non saranno certo le preghiere a smuovere i duri interessi materiali. La storia però non è scontata, il futuro non è iscritto per intero negli errori del passato. Il cambiamento è possibile. È la ragione di una vita dignitosa. Negarlo sarebbe come nega- re la libertà. O la politica. Perché la politica, compresa la diplomazia degli Stati, non è soltanto l’amministrazione del realismo. Guai se il realismo diventasse la resa alla dittatura del presente, e del più forte. La politica ha sempre bisogno di una speranza capace di conquistare ciò che non sembra più neppure sperabile. Ha bisogno di una sua trascendenza, oltre la linea dell’orizzonte che si vede. Una trascendenza laica, cioè condivisibile da donne e uomini con credi diversi, con dubbi diversi, con desideri diversi per il futuro. Ma è proprio la speranza del futuro dei propri figli, oltre le ingiustizie di oggi, la leva del cambiamento.

Le religioni monoteiste possono dare un grande aiuto all’umanità, offrendo la loro riserva escatologica, che è una riserva critica contro le oppressioni, il pensiero unico, il materialismo dei potentati economici e delle oligarchie dominanti. Ma per fare questo le religioni devono scegliere fino in fondo l’uomo e separarsi dal potere, rinunciare ai suoi privilegi, ricondurre la fede sul terreno della liberazione anziché affidarla al campo materialista del dominio. È questo uno dei peccati contro la pace di cui ieri nei giardini del Vaticano si è chiesto giustamente perdono. Non c’è umanità senza l’errore che produce sofferenza. E non ci sarà pace senza perdono. Che è dono di se stessi. Quante volte La Pira, sognatore e visionario, ha parlato della riunificazione della famiglia di Abramo. È lui il padre dei figli di Isreale, dei cristiani, dei discendenti di Ismaele. I fratelli non possono uccidersi tra loro. Non è un caso che, nella citazione di Paolo, è proprio Abramo l’uomo della spes contra spem. Quando alla fine degli anni Cinquanta La Pira organizzò a Firenze i primi Colloqui mediterranei, con leader arabi e israeliani, ripeteva che la nuova Gerusalemme è vicina: «Se il Signore ha portato a Gerusalemme il centro della sua strategia ci deve essere una ragione di immensa portata soprannaturale e storica». Gerusalemme, città santa per ebrei, cristiani e musulmani. Gerusalemme epicentro del conflitto, che è l’origine vera della crisi del Medio Oriente. Gerusalemme luogo di rinascita della pace per il mondo intero.

Ieri Roma ha vissuto un giorno di profezia. E di speranza. In mattinata Papa Francesco, commentando il vangelo della Pentecoste, aveva detto che la Chiesa deve sorprendere e scompigliare, altrimenti va «ricoverata nel reparto di rianimazione». Quando promosse una giornata mondiale di preghiera – a cui pure aderirono comunità di diverse fedi religiose – per scongiurare l’escalation di guerra in Siria, quella preghiera venne ascoltata. Molti erano gli scettici anche allora. Papa Francesco ottenne però da Stati Uniti e Francia la rinuncia a un intervento militare che avrebbe fatto esplodere la polveriera. Certo, non si può dire che la pace ha prevalso. Ma le preghiere a volte possono entrare nella storia e lasciare un segno.

Quanto fu criticato, all’interno della stessa Chiesa, Giovanni Paolo II per l’incontro ecumenico di Assisi! Lo accusarono persino di sincretismo, come se fosse in odore di eresia. Ma il dialogo interreligioso è una pietra importante nella costruzione della pace. Proprio perché le religioni sono state e sono ancora usate come armi da guerra. I cristiani hanno gravi responsabilità storiche e non ovunque sono immuni da integralismi. Gli ebrei e i musulmani hanno oggi impasti con culture, poteri statuali, regimi politici che spesso comprimono le fedi rendendole motori dei conflitti. È necessario per tutti un grande salto. Ma l’umanità, e la politica, hanno bisogno soprattutto di persone che credano che il salto è possibile.

L’Unità 09.06.14