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"Tra fine vita e ipocrisie di Stato", di Michele Ainis

Fra i troppi ministeri ospitati dal nostro troppo Stato, ce n’è invece uno di cui s’avverte la mancanza: il ministero della Sincerità. Se mai venisse istituito, ecco il nome giusto per dirigerlo: Giuseppe Saba. Non è giovane (87 anni), non è donna, ha perfino un titolo di studio (era ordinario di Anestesiologia). Peccati imperdonabili, alle nostre latitudini. Ma il peccato più grave l’ha commesso qualche giorno fa, rilasciando un’intervista a L’Unione Sarda . Dove candidamente ammette d’avere aiutato un centinaio di malati terminali, per farli morire senza sofferenze. Dove pronunzia a voce alta la parola tabù: eutanasia. Dove denuncia l’ipocrisia verbale di chi la chiama «desistenza terapeutica», come se non ci fosse in ogni caso una spina da staccare. E dove infine racconta che la dolce morte costituisce una pratica diffusa, diffusissima, nei nostri ospedali. Si fa, ma non si dice. Lui invece l’ha detto.
Non che la notizia ci colga alla sprovvista. Lo sapevamo già, lo sa chiunque abbia assistito all’agonia di un amico o d’un parente, con i medici che armeggiano dentro una stanza chiusa. E i pochi dati in circolo ne offrono la prova. Secondo un’indagine condotta nel 2002 su venti ospedali di Milano, l’80 per cento dei camici bianchi pratica l’eutanasia passiva (ovvero l’interruzione delle cure), il 4 per cento quella attiva (con l’uso di un farmaco letale). Mentre la ricerca più nota — quella imbastita nel 2007 dall’Istituto Mario Negri — stima 20 mila casi l’anno di pratiche eutanasiche. Ma questa è l’esperienza, non la giurisprudenza. Per i nostri codici, se raccogli l’estremo appello di chi non ne può più, rischi la galera. «Omicidio del consenziente», così viene definito. Anche se il tentato suicidio, di per sé, non è reato. Dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene, se ne hai la forza fisica. Non se sei inchiodato a un letto come Eluana, come Welby, come tanti povericristi di cui non abbiamo visto mai la croce.
Per carità, parliamone. Ma sta di fatto che il nostro legislatore è muto come un pesce. Aprì bocca nella legislatura scorsa, però avrebbe fatto meglio a stare zitto. Con il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, che definiva l’alimentazione e l’idratazione forzata «forme di sostegno vitale», quindi irrinunciabili. Come se le cure mediche fossero invece sostegni mortali. E comunque quel disegno di legge non si è mai tradotto in legge. Né più né meno dell’iniziativa popolare depositata in questa legislatura dall’associazione Coscioni, che giace da trecento giorni nei cassetti della Camera. Sulle volontà del fine vita in Italia c’è un buco normativo, che ci distingue dagli altri Paesi occidentali (Usa, Germania, Francia, Inghilterra e via elencando). Nonostante i moniti dei nostri grandi vecchi, da Montanelli a Veronesi. O di Napolitano, che tre mesi fa ha sollecitato (invano) il Parlamento.
Sicché il diritto alla salute si è tramutato nel dovere di soffrire. A meno che non incontri un medico pietoso, e soprattutto silenzioso. Di qua il diritto, anche se è un legno storto; di là la compassione, che tuttavia prova soltanto chi ha passione. Ecco, è questa la frattura che ci separa dal resto del pianeta. È il solco che divide il dover essere dall’essere, la realtà dalla sua immagine legale. È la discrezionalità che in ultimo circonda l’operato di ciascuno, o perché le leggi sono troppe (da qui la corruzione), o perché non c’è nessuna legge in questa giungla. Ed è infine l’ipocrisia di Stato, con le sue doppie leggi, con la sua doppia morale. Ci salverà, forse, un bambino. Oppure un vegliardo, come Giuseppe Saba.

Il COrriere della Sera 12.06.14