Quando divenne premier, ai primi di maggio del 1997, Tony Blair dichiarò che il suo governo aveva tre priorità: istruzione, istruzione, istruzione. Nei diciassette anni che sono passati da allora, quello che era nel 1997 un programma sorprendente e uno slogan ben trovato si è trasformato in una verità lapalissiana. Nessuno è oggi tanto sprovveduto da non accorgersi che la ricchezza delle nazioni, presente e futura, consiste e soprattutto consisterà nel livello culturale dei cittadini, nella loro utensileria mentale. Nel capitale umano, certo, ma in un capitale coltivato. Nessuno è oggi tanto snob da non riconoscere che dietro l’irritante retorica della «società della conoscenza» si cela un solido, persin troppo solido, nucleo di verità. Il fatto cioè, nudo e crudo, che le condizioni di vita e di sviluppo passeranno di lì, dal livello e dalla capillarità dell’istruzione.
Quel che i diciassette anni trascorsi hanno dimostrato — tra diffusione delle tecnologie digitali, apertura e globalizzazione dei mercati, voracità nell’apprendimento (si pensi agli studenti asiatici in America…) — è che su questi temi siamo usciti dal quadro otto-novecentesco ispirato al progressismo umanitario. Siamo alla struggle for life, alla lotta per la sopravvivenza. E la sopravvivenza (spesso, pudicamente, chiamata occupazione…), per strano che possa parere, passa primariamente dall’istruzione. Ora, il perno del nostro sistema scolastico è lo snodo tra l’apprendimento preuniversitario e quello universitario. È un rendiconto finale, la somma di tutte le somme. È una conclusione — di un ciclo più che decennale — ed è un inizio. È una selezione, tra chi vuole e può proseguire e chi no. È un coming of age , un passaggio e un rito di passaggio, dalla adolescenza alla giovinezza, l’ingresso nella vita adulta. Tutto questo è quel che, antiquatamente ma appropriatamente, chiamiamo maturità. E siccome si tratta di un perno delicatissimo, di una cervicale, di un’anca, di un ginocchio, insomma di un’articolazione essenziale dell’intero sistema, dalle sue condizioni si può dedurre agevolmente lo stato di salute del tutto.
In via preliminare occorre però decidere se l’esame di maturità, che parte domani con la prima prova, abbia ancora un senso. Se infatti singole facoltà di singole università pubbliche amministrano propri esami d’ammissione (ah che nostalgia la Camera dei Fasci e delle Corporazioni…), è chiaro che l’esame di maturità perde ogni significato. Meglio eliminarlo, con risparmio di fatica, tempo e denaro. Nessuno scandalo, gli altri grandi Paesi europei non ce l’hanno o non ce l’hanno così tardi, a diciannove anni. Se invece si eliminano gli esami di ammissione, l’intero sistema scolastico deve essere radicalmente rifatto. Non riformato, rifatto. Il motto di Blair, nuovo rasoio di Occam, non lascia scampo. Se questa è la cosa più importante, è la prima da fare.
Partendo dal principio, materialistico ma lodevole, «intanto che non ci piova dentro» il governo ha per il momento affrontato l’edilizia scolastica . C’è ben altro. C’è un corpo insegnante umiliato, un personale non insegnante assai folto, un’università burocratica, sindacati riottosi. Ma il peggior di tutti i mali sta al centro, nella normativa, pedante sulle inezie e cieca di fronte al senso effettivo delle cose.
Una normativa che negli anni si è particolarmente esercitata, con una sorta di voluttuosa insistenza, proprio sull’esame di maturità. Cambiandogli nome e connotati, azzoppandolo, lentamente sfregiandolo e sfigurandolo. In una sorta di riedizione burocratica del Principe felice (anche se la maturità a dire il vero tanto felice non era) di Oscar Wilde, dove alla statua del principe gli uccelli cavano prima ornamenti, decorazioni e gioielli e poi gli occhi. Ma anche questo troncone non trova pace. L’anno prossimo infatti, meraviglie d’Italia, giungerà a compimento (!) l’ultima tranche della riforma del 2010, cioè di tre governi fa.
Nel frattempo gli indefessi normatori si occupano di aspetti essenziali per il futuro del Paese. Per nostra consolazione, il 19 maggio il ministero ha emanato l’Ordinanza n.37 che all’Articolo 21, «ai sensi del Decreto Ministeriale 16 dicembre 2009, n.99, articolo 3, comma 2» si preoccupa di stabilire i criteri a cui le commissioni degli esami di maturità si devono attenere per conferire il voto supremo di cento e lode. Ciò chiarito, sembra di capire, il perno su cui ruota tutto il nostro sistema scolastico tornerà all’antico splendore. Con tanti saluti a Blair e al suo istruzione, istruzione, istruzione .
Il Corriere della Sera 17.06.14