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“Polimorfismi e computer: così ho letto il Dna dove c’è la firma del killer di Yara”, di Valentina Arcovio

La svolta delle indagini sulla morte di Yara Gambirasio è arrivata lontano dalla scena del crimine. Lontano dalla Val Brembana. Oltre alle forze dell’ordine e all’Università di Milano, a dare un contributo fondamentale sono stati i laboratori dell’Università Tor Vergata di Roma, guidati dal genetista e rettore dell’ateneo Giuseppe Novelli. Lo stesso scienziato che ha permesso, alcuni anni fa, di inchiodare il boss Provenzano e che ora ha dato un contributo decisivo a smascherare l’identità del presunto assassino di Yara. Massimo Giuseppe Bossetti è stato identificato, dopo quasi quattro anni di ricerche, a partire dalla ricostruzione del suo Dna, il codice genetico che si eredita per metà dalla madre e per metà dal padre e che è caratteristico di ogni individuo.
Tutto è iniziato dall’analisi di minuscole macchie, forse di sangue, rinvenute sulle mutandine della vittima. «Tramite i cosiddetti “sistemi di eluizione” è stato possibile staccare quella piccola traccia biologica dal tessuto», spiega Novelli. In pratica gli scienziati hanno trattato il frammento di slip con un «mix» di sostanze chimiche che ha permesso di isolare quella che si è poi rivelata essere la traccia chiave del caso.
Successivamente il campione è stato sottoposto a una serie di procedure «di pulizia». «La traccia è stata purificata, vale a dire separata da altri componenti come proteine, minerali e sali, tramite una resina in grado di legarsi alle molecole di Dna», racconta lo scienziato. Poi il campione è stato misurato: una macchina grande quanto un tablet, che sfrutta particolari sostanze chimiche, ha permesso di quantificare il Dna presente nel campione. «A quel punto ci si è chiesti se la quantità ricavata – continua Novelli – fosse sufficiente per sottoporla a successive analisi che avrebbero permesso di confermare la natura biologica del campione: sangue, urina, sperma e così via. Ma, vista la quantità esigua e il rischio di compromettere quell’unica traccia, si è deciso di proseguire direttamente con le analisi del Dna».
Per rendere l’esame più preciso il campione è stato copiato milioni di volte con una tecnica ormai famosa – la «Reazione a catena della polimerasi» (nota come «Pcr»), messa a punto nel 1983 dal Premio Nobel Kary Banks Mullis – e che oggi vanta numerose applicazioni anche in medicina e in biotecnologia. «Il campione – spiega il genetista – viene utilizzato come una sorta di stampo che, una volta inserito nell’amplificatore – cioè una macchina grande quanto un pc – permette nel giro di appena 4-5 ore di produrre moltissime copie». Il materiale ottenuto può quindi essere «letto chimicamente» tramite il sequenziamento del Dna. La macchina utilizzata per l’operazione – questa volta grande almeno quanto un vecchio computer da tavolo – valeva solo qualche anno fa centinaia di migliaia di euro (quella di Tor Vergata ne è costati 200 mila), ma oggi può essere acquistata a poco più di mille euro.
«Nel caso di Yara – racconta il genetista – sono stati analizzati 16 polimorfismi, cioè 16 punti di lettura del Dna che cambiano da persona a persona». Una volta che il sequenziatore ha svolto il lavoro, sullo schermo dei computer dei laboratori sono apparsi quelli che in gergo si chiamano «picchi», piccole linee distinguibili le une dalle altre per colore, altezza e posizione: a quel punto era finalmente disponibile il profilo genetico dell’individuo che si stava cercando, ovvero la sua impronta genetica digitale.
Passo successivo: si doveva dare un volto, oltre che un nome e un cognome, alla persona, che da quel momento-chiave in poi ricercatori e inquirenti hanno ribattezzato «Ignoto 1». Infatti. mentre gli scienziati lavoravano per amplificare al massimo quella flebile traccia, in Val Brembana è iniziata un’operazione su vasta scala, unica nel suo genere. Squadre di carabinieri e poliziotti hanno contattato 18 mila persone residenti nella zona dove viveva Yara e hanno prelevato piccoli campioni di saliva, dai quali estrarre frammenti di Dna. Senza questi controlli a tappeto le analisi dei genetisti sarebbero state inutili: sarebbe stato impossibile rintracciare eventuali Dna simili o complementari con quello del presunto assassino.
Così, è stato solo dopo avere analizzato questo materiale genetico che è stata trovata un’ulteriore traccia: uno dei profili rivelava una certa compatibilità con quello rinvenuto sui vestiti di Yara. Poteva essere, per esempio, il Dna di un consanguineo del presunto killer. «Si è deciso – spiega Novelli – di concentrarsi sulla famiglia della persona che è risultata avere un Dna molto somigliante con quello delle tracce sul cadavere. Anche tra i familiari di questa persona, due figli e una madre, nessuno è risultato compatibile. Il padre era morto, e quindi è stato escluso, ma ormai era chiaro che ci fosse un collegamento».
Da qui è cominciata a formarsi l’idea che «Ignoto 1» fosse un figlio illegittimo. «E’ stato prelevato il Dna del padre (che era già deceduto), estraendolo dalla saliva usata per attaccare la marca da bollo della sua patente, e, ripetendo le procedure eseguite sulla traccia rinvenuta sul corpo di Yara, abbiamo trovato una compatibilità molto forte», racconta lo studioso. A questo punto sono entrati i calcoli biostatistici messi a punto dai genetisti romani. «Questi sistemi, che consentono di stabilire il grado di parentela tra due diversi profili genetici, ci hanno permesso di ipotizzare che l’uomo poteva essere proprio il padre di Ignoto 1». Per escludere ogni possibilità di errore è stato riesumato il cadavere dell’uomo. «E’ stato prelevato il Dna da un pezzetto di osso, purificato dalla materia inorganica presente, e poi analizzato con le stesse procedure usate per la traccia iniziale», dice Novelli. In poche ore sui computer è apparsa la scritta tanto attesa: «Match».
Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno, era davvero il padre di «Ignoto 1». A questo punto è partita un’altra battuta di caccia. Ma stavolta il campo di ricerca era più ristretto. «Sono stati analizzati i profili di oltre 700 donne che, in base alle testimonianze, potevano aver avuto contatti con l’autista. Lo scopo – spiega Novelli – era trovare la componente materna del Dna per confrontarla con quella del campione. Sono state individuate alcune possibili sospette e per una di loro si è visto che il Dna combaciava, cioè doveva essere la madre di Ignoto 1».
Gli inquirenti hanno quindi identificato il figlio della donna e, con un controllo con l’etilometro fatto nei giorni scorsi, è stata ricavata la sua saliva e, di conseguenza, il suo Dna. Da una nuova comparazione è emersa la compatibilità totale tra il Dna di «Ignoto 1» e quello di Massimo Giuseppe Bossetti, la persona fermata.
Il lavoro della scienza era a questo punto è concluso. «Gli scienziati hanno trovato i pezzetti di questo puzzle – conclude Novelli -. Ora tocca alle autorità ricomporli e svelare il mistero che celano».

La Stampa 18.06.14