economia

"La strana coalizione che non vuole  lo shopping della domenica", a cura di Giuseppe Botteri

Le commesse di Bolzano che sono volate fin da Papa Francesco con i cartelli «Domenica No Grazie», l’alleanza «per le festività libere» che si sfoga su un cliccatissimo gruppo Facebook. E poi le sigle sindacali senza troppe distinzioni, il governatore del Veneto Luca Zaia, i vescovi, la Confcommercio, Confesercenti, sindaci sparsi per l’Italia, a macchia di leopardo. 
Che strana coalizione, quella che sta muovendo contro la liberalizzazione delle aperture dei negozi, fissata nel 2011 da Monti e messa nel mirino da (quasi) tutte le associazioni dei piccoli esercenti, che monitorano attenti come poche altre volte i progressi della legge bipartisan che sta avanzando svelta in Parlamento, precisamente in commissione attività produttive.  
 
La proposta – decisamente osteggiata dalle grandi aziende – è stata presentata dal deputato Pd Angelo Senaldi all’inizio del mese. Dopo lunghe trattative, il 18 giugno hanno votato a favore Partito democratico, Ncd, Sel, Forza Italia e Lega. L’arco costituzionale al gran completo, a parte i Cinque Stelle e Scelta Civica. 
L’ipotesi su cui si sta lavorando è un parziale passo indietro rispetto alla situazione attuale e prevede la chiusura obbligatoria degli esercizi nelle giornate di Capodanno, Epifania, 25 aprile, Pasqua, Pasquetta, 1° maggio, 2 giugno, Ferragosto, 1° novembre, 8 dicembre, Natale e Santo Stefano. A discrezione dei Comuni, sei di queste dodici festività potrebbero essere sostituite da una domenica nel corso dell’anno.  
L’idea piace anche ad alcuni esponenti del governo, e la scorsa settimana il ministro dello Sviluppo Federica Guidi l’ha appoggiata pubblicamente: «Siamo già sollecitati dall’Europa, ma oltre questo affrontare il tema di un numero limitato di chiusure su base annuale è un principio che mi trova d’accordo ed è percorribile», ha detto davanti a una platea di commercianti. Applausi. 
 
Eppure il fronte non è così compatto. Anche perché, scorrendo i numeri, si scopre che i clienti, le aperture domenicali, le apprezzano parecchio. Il 65% della popolazione italiana è favorevole, certifica la Nielsen, un numero che sale all’80% quanto ad essere interpellati sono i giovani. «Non si tratta di obbligare qualcuno a restare aperto, ma di dare la possibilità di restare aperti quando c’è la domanda di acquisto», ragiona Andrea Giuricin, docente all’università Bicocca e fellow dell’Istituto Bruno Leoni. È il pensiero dei grandi distributori, contrarissimi a un passo indietro, seppure parziale.  
 
Difficile capire quanto, davvero, questi primi due anni e mezzo abbiano cambiato i consumi. Gli analisti di Federdistribuzione hanno elaborato una statistica che racconta come le 8,1 milioni di famiglie che non sono state sbranate dal calo del potere d’acquisto abbiano fatto salire da 184,6 a 203,1 gli articoli acquistati durante le festività. Poco? Tanto? L’unica certezza è che, pur cambiando pelle, il commercio ha resistito alla grande crisi: secondo i dati di Movimprese il numero di esercizi registrati a marzo 2014 è pari a 865.820, in calo «solo» di 750 unità – lo 0,1% – rispetto al marzo 2013.  
 
Certo, tocca reinventarsi, e parecchio: il vecchio parrucchiere all’angolo di Via Madama Cristina, a Torino, ha lasciato spazio ad un salone gestito da ragazzi cinesi. Non chiudono neppure il lunedì, e si sono presi il lusso di assumere una signora italiana. Alle clienti piace, si sentono a casa, loro spendono un po’ di più ma hanno la qualità garantita. Non è così per tutti: «Chi non fa il nostro mestiere non sa cosa voglia dire vivere la nostra vita fatta di molte rinunce. Gente con fior di lauree che fa il commesso per necessità, ma che poi magari si è innamorato di questo mestiere. Ebbene anche loro hanno lo stesso diritto di essere trattati con rispetto ed educazione», racconta Silvia, cassiera trentina, 33 anni, in una lettera aperta indirizzata a Renzi.  
La regione Veneto e l’Abruzzo si sono mossi per un referendum che permetta un ritorno al passato. Non è semplice, perché per sottoporre il quesito alla Cassazione servono almeno cinque Consigli, ma l’iniziativa procede

da la Stampa