cultura

Il sogno dei giovani del Valle "Un´altra cultura è possibile" di Curzio Maltese

La storica sala occupata dal 14 giugno da artisti precari e non per chiedere lavoro e nuove regole. Pago le bollette con la tv. Fare teatro è un lusso. Perchè i miei colleghi di Londra campano bene?
Chiediamo di lavorare senza essere massacrati dalla burocrazia e senza dipendere dai politici. Da trent´anni dicono di chiudere gli enti inutili. L´hanno fatto solo con l´Eti che gestiva questa sala. Non si esce da qui solo con un evento ma faremo proposte per cambiare il sistema culturale
In qualsiasi altro paese il destino del Teatro Valle di Roma sarebbe uno solo: monumento nazionale. Nell´Italia paradossale di Berlusconi il teatro più antico e bello della capitale può diventare o un mega ristorante oppure il luogo di una rivoluzione. Da nove giorni e nove notti qui va in scena la rivolta della cultura. Si sono fatti aprire col più italiano degli stratagemmi, una bella ragazza che fingeva di chiedere informazioni. Appena dentro, hanno blindato le uscite con catene e bastoni e spalancato il cuore del teatro a chiunque volesse partecipare.
Da allora un pugno di lavoratori dello spettacolo, in gran parte giovani precari, sta gestendo un teatro pubblico meglio di un consiglio d´amministrazione. Duemila spettatori ogni sera a vedere decine di artisti famosi, da Elio Germano ad Andrea Camilleri, da Franca Valeri a Silvio Orlando a Moni Ovadia, un intero quartiere stretto intorno agli occupanti, la polizia che lo sa e sorveglia da lontano, il caso finito sui media internazionali. Giorno dopo giorno, una lotta nata un pomeriggio, è diventata il simbolo di un´altra Italia. Un´Italia che «considera la cultura un bene pubblico come l´acqua», per dirla con Elio Germano. Un paese di ragazzi e ragazze che si sono formati all´estero e credono nel merito e nel sogno, attrici e attori che studiano all´accademia e non fanno la fila da Lele Mora per avere lavoro, registi e tecnici precari da una vita perché non hanno un Bisignani che li raccomandi ai papaveri di viale Mazzini. Gente stufa di umiliazioni, di stage gratuiti per anni, di «mandami er book» e «ma tu chi conosci?», di finti provini di massa dove ti dicono «vai, hai un minuto», «ma tanto hanno già deciso il cast di parenti e amici e lo fanno solo per rubare una giornata di lavoro», di falsi laboratori «dove paghi per entrare, ti fanno fare due settimane di improvvisazioni e poi ti fregano i monologhi».
Belle facce che forse un giorno saranno famose, come quella di Margherita Vicario, 23 anni, che recita, canta, suona, scrive canzoni, anche in inglese, fa la volontaria negli ospedali pediatrici e cura l´archivio pirandelliano del nonno: «Pago le bollette, come tutti, grazie alla tv. Ma il teatro non posso farlo perché è un lusso, si lavora senza paga. Ma perché se i miei amici e coetanei attori a Londra o a Barcellona campano benissimo?».
«Da trent´anni in Italia si parla di chiudere gli enti inutili o di abolire le province. Mai fatto. L´Eti, l´unico ente teatrale pubblico, l´hanno invece l´hanno chiuso in due ore», dice Danilo Nigrelli, uno dei nostri migliori attori e registi di teatro, fra i capi della rivolta. L´Eti aveva in gestione il Valle di Roma, la Pergola di Firenze, il Duse di Bologna, un bel pezzo della storia teatrale italiana che ora rischia di andare all´asta. Dietro c´è l´anti-cultura che ha dominato in questi ultimi vent´anni e per di più in una nazione che detiene il 60 per cento dei beni artistici del pianeta e dove il 12 per cento del Pil arriva dal turismo. Il solo e derelitto cinema italiano è la terza industria del paese, con buona pace di Tremonti. Nello spettacolo lavorano 250 mila persone, 50 mila più che nella Fiat. Con la prospettiva di raddoppiare i posti di lavoro nel prossimo decennio, se si seguono le tendenze del resto d´Europa. Perché l´Italia ha più avvocati e architetti di Francia, Germania e Gran Bretagna, ma molti meno artisti di professione. «E allora da dove nasce questa favola che gli artisti non fanno un lavoro vero, sono mantenuti dallo Stato?» si ribella Manuela Cherubini, regista teatrale e traduttrice «Sia ben chiaro che noi non vogliamo l´Eti di prima e non difendiamo l´elemosina di Stato del Fondo unico dello spettacolo. Il Fus ti dà soltanto soldi che dovevi poi restituire in tasse e con l´interesse allo Stato, facendo guadagnare nel passaggio le sacre banche italiane. Noi chiediamo soltanto di poter lavorare, come accade in tutta Europa, senza essere massacrati dalle tasse e dalla burocrazia e senza dover dipendere dalla carità pelosa dei politici».
«C´è rabbia, amarezza, dolore in quest´occupazione, ma anche una felicità, una voglia di cambiare bellissima», dice Gabriele Lavia, direttore del Teatro di Roma e in teoria investito della responsabilità della prossima stagione del Valle, in attesa dell´asta. Come tale, dall´assemblea del Valle, s´è preso una bella dose di fischi. «Ero l´unica istituzione che si sia presentata ed è normale che mi abbiano contestato. Ma meno male che c´è stata questa occupazione. Non è un problema. È la salvezza. Io la farei durare un anno». Chissà se è una promessa. È certo che nella sua gloriosa storia, il Valle tanta gente non l´aveva mai vista. E tanta gente non aveva mai visto il Valle, dai negozianti del quartieri ai passanti semplicemente attratti dal casino, dalle migliaia di ragazzi. Ieri sera, come ogni sera, hanno dovuto mandare via centinaia di spettatori per problemi di sicurezza, con il teatro pieno all´inverosimile e sul palco la staffetta di grandi attori e debuttanti con le gambe tremule davanti alla folla. In un clima da teatro d´una volta, con gli applausi, i fischi, i “basta!” e i “biiis!”, insomma la vita. Quando all´una si spengono le luci, Margherita canta l´ultima canzone della buonanotte, gli occupanti si sistemano col sacco a pelo nei palchi settecenteschi per un´altra notte, nel Valle buio torna il peso dei ricordi. È un teatro che ha tenuto a battesimo tre secoli, il Settecento con l´inaugurazione, l´Ottocento neoclassico con il nuovo progetto del Valadier e il Novecento delle avanguardie con la prima rappresentazione dei Sei personaggi. Mario Monicelli, che lo amava molto, l´aveva omaggiato con una delle più indimenticabili scene del Marchese del Grillo. Non se ne fosse andato in quel modo, sarebbe qui a guardare nel suo teatro la sua rivoluzione.

La Repubblica 23.06.11