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“Il realismo necessario”, di Massimo Franco

Dire che Giorgio Napolitano osserva con ottimismo la situazione significherebbe travisarne il pensiero, oltre che le parole. Il suo discorso di ieri alle autorità dello Stato riflette piuttosto la consapevolezza che l’Italia oggi vive una fase tormentata, dominata da molte incognite e quasi in bilico fra stabilità ed elezioni anticipate e fra coesione nazionale e derive violente. L’agguato subito da Silvio Berlusconi a Milano, il 13 dicembre scorso, è stato un «fatto assai grave». Il presidente della Repubblica lo considera come l’epilogo di un imbarbarimento che aveva intravisto e sottolineato più volte. La sua lungimiranza, tuttavia, è una soddisfazione amara.

Per questo Napolitano si sforza di riproporre una lettura che assecondi, se non un clima da riforme condivise, tuttora improbabile, almeno un atteggiamento più ragionevole; e che analizzi rischi e potenzialità, optando per le seconde. Soprattutto, il suo invito è a non aggiungere fattori di divisione artificiosi ad elementi già seri di preoccupazione. Il cuore del suo ragionamento parte dalla presa d’atto che siamo in una legislatura «ancora nella fase iniziale». Il governo farebbe torto a se stesso e alla Costituzione se temesse complotti impossibili quando si ha la fiducia della maggioranza del Parlamento. Non si tratta di esaltare la stabilità in quanto tale: in gioco c’è qualcosa di più.

È «quel fondo di tessuto unitario » che il capo dello Stato teme sia lacerato da una nuova rottura politica e istituzionale. In fondo, il timore espresso nelle scorse settimane di una spirale crescente di veleni ha finito per dare frutti avvelenati anche «con la brutale aggressione al presidente del Consiglio ». Ma quello è solo il punto di arrivo, la «degenerazione verso un clima di violenza» con radici più profonde e lontane. La scommessa di Napolitano è che proprio l’episodio di piazza Duomo diventi l’inizio di un «ripensamento collettivo». Per tutti: per una magistratura della quale critica eccessi di protagonismo e la tentazione di darsi missioni improprie, e per lo stesso governo.

Il capo dello Stato vede incrinato il rapporto fra il Parlamento e Palazzo Chigi. Ritiene che il modo in cui negli anni scorsi le maggioranze hanno imposto le proprie priorità abbia compresso il ruolo delle Camere e peggiorato la qualità delle leggi. La critica non si limita al centrodestra berlusconiano.

Napolitano risale più indietro nel tempo, coinvolgendo in questo giudizio negativo anche altre coalizioni. Ma certamente fra 2008 e 2009 il fenomeno ha assunto contorni nitidi, al punto da evocare l’esistenza di un «sistema parallelo» a quello parlamentare di formazione delle leggi: una distorsione ormai così consolidata che per spezzarla non basta più il galateo istituzionale. Al capitolo delle riforme, tuttavia, il presidente della Repubblica si avvicina con decisione e insieme circospezione: nel senso che l’unico approccio possibile gli sembra quello magari non proprio minimalista ma certamente dettato da un sano realismo. Napolitano torna a suggerire poche proposte, e ben mirate: le uniche che, forse, potrebbero produrre risultati e non ulteriori frustrazioni nell’attuale legislatura. Ed aggiunge il proprio atto di fedeltà al sistema parlamentare, proclamando la sua contrarietà all’idea che esistano riforme costituzionali «di fatto e dunque operanti». Una Costituzione non cambia perché è mutato il sistema politico o è stata modificata la legge elettorale, secondo il capo dello Stato. Si tratta di un ammonimento chiaro: chiunque pensasse di forzare gli equilibri fra i poteri, di cercare scorciatoie magari per tornare alle urne, dovrà fare i conti con passaggi che la Carta prevede come obbligati e inviolabili. Ma se si arrivasse a quel punto, significherebbe che nessuno è stato in grado di governare i conflitti; e che invece del Paese più unito di quanto appaia, raffigurato da Napolitano, ha prevalso una strategia della lacerazione tale da evocare altri strappi: una specie di follia di piazza Duomo come normalità.
Il Corriere della Sera 22.12.09

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Patto scellerato e pessimismo del Colle, di MASSIMO GIANNINI

Come Benedetto Croce, che nel ’48 invocava il suo celebre “Veni, creator spiritus” sull’assemblea convocata per scrivere la tavola delle leggi della Repubblica, così Giorgio Napolitano oggi sembra rievocare il ritorno di un impossibile “spirito costituente”. Ma nelle parole del capo dello Stato c’è in realtà l’eco nostalgica per un tempo che non ritornerà.
È necessario auspicare che dall’aggressione al premier in Piazza Duomo possa nascere un “ripensamento collettivo”. È giusto richiamare ancora una volta le forze politiche al senso di responsabilità e al “massimo di condivisione e di continuità nel tempo” che la gravità della fase economica e sociale richiederebbero. È doveroso appellarsi alle aspettative di quell’Italia sana che lavora e fatica, e all’esigenza di non lacerare quel “tessuto unitario” così solido e vitale.

È scontato, infine, rinnovare l’invito a fermare “la spirale di una crescente drammatizzazione delle tensioni tra le parti politiche e tra le istituzioni”. Ma cosa può germogliare da tanta speranza, nel discorso pubblico italiano? Al di là della retorica sul “dialogo” e della polemica sull'”inciucio”, maggioranza e opposizione parlano linguaggi incompatibili e alludono a scenari inconciliabili. Il presidente della Repubblica, da politico idealista ma realista, è il primo a rendersene conto, se si costringe ad ammettere che per le grandi riforme, economiche e politiche, non si vede “un clima propizio nella nostra vita pubblica”. La ragione è più semplice di quello che la propaganda dominante vorrebbe far credere. Per il centrodestra, nella versione bellica di Berlusconi e a dispetto della sua fresca ispirazione “ghandiana”, la parola “riforme” è una fantomatica esigenza collettiva che serve per vestire di qualche dignità una drammatica urgenza privata.

Questo è l’assioma intorno al quale il presidente del Consiglio dispiega la sua geometrica potenza: una legge ad personam, che salvandolo dai processi pendenti, trasformi lo stato di diritto in “stato di eccezione”. Tutto il resto, dall’elezione diretta del premier al Senato federale, viene dopo. Sono semplici corollari, utili alla sua biografia personale o alla sua geografia coalizionale. Se non c’è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell’immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura. Per il centrosinistra, nella versione pragmatica di Bersani e a dispetto della controversa esegesi dell’intenzione dalemiana, si tratta di scegliere, molto semplicemente, se accedere o meno al “patto scellerato”: fidarsi del Cavaliere, ingoiando la diciassettesima legge-vergogna per tentare uno sbocco all’eterna transizione italiana.

Per ora il Pd sembra resistere al canto delle sirene berlusconiane. Dice no allo scambio nelle camere oscure, e opportunamente rilancia una sua agenda di riforme politiche, istituzionali e sociali nelle Camere parlamentari. E fa bene: le riforme appartengono al patrimonio genetico e culturale della sinistra italiana. Sono il suo dna storico e politico. Non bisogna aver paura di avere coraggio, come diceva Aldo Moro negli anni di confronto più serrato con Enrico Berlinguer. Napolitano tutte queste cose le sa, anche se non può dirle in chiaro. Ma da questa consapevolezza nasce il suo attuale pessimismo della ragione. Che lo costringe a tamponare per l’ennesima volta le forzature costituzionali di Berlusconi e le storture politiche della sua maggioranza. La farsa di un “governo che non può governare”, e che invece in questi due anni, con la clava di ben 47 decreti legge, “ha esercitato intensamente i suoi poteri e non ha trovato alcun impedimento” finendo con l’umiliare il Parlamento. La leggenda di una giustizia che non funziona solo perché abitata da toghe rosse e pm politicizzati, mentre il giusto processo riformato nell’articolo 111 della Costituzione esigerebbe ben altri interventi a beneficio dei cittadini. Nel rispetto dell'”intangibile principio di autonomia e indipendenza della magistratura”, ma anche di quel “senso del limite” che dovrebbe caratterizzare sempre i magistrati, chiamati a non esorbitare mai dai propri compiti e a non sentirsi mai investiti di “missioni improprie” (come forse è accaduto ad esempio in qualche passaggio del parere rilasciato dal Csm sul processo breve).

Poi il romanzo del “presidenzialismo di fatto” e della sedicente “costituzione materiale” che ormai sopravanzerebbe la Costituzione formale: Napolitano, su questo, è stato netto come mai era stato, ripescando “l’illusione ottica” denunciata a suo tempo da Leopoldo Elia in quelli che scambiano “per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico”, e aggiornandola con un esplicito riferimento alla modificazione della legge elettorale. E infine l’opera buffa del”complotto”, tante volte messa in scena dal presidente del Consiglio e mai come stavolta sconfessata senza pietà dal presidente della Repubblica. Non c’è complotto possibile, di fronte a un governo che ha una maggioranza schiacciante. E persino di fronte alla tanto esecrata Costituzione, che per Berlusconi è un “ferrovecchio sovietico”, mentre è il presidio più forte per le regole democratiche e per le istituzioni repubblicane.

Quale può essere il terreno per “riforme condivise”, in questo abisso di sensibilità politica e di cultura costituzionale? Oggi non c’è risposta. O meglio, ce ne sarebbe una sola, da non confondere con il conservatorismo costituzionale. Nel suo discorso alle alte cariche Napolitano vi accenna, quando parla di una “visione costituzionale” che dovrebbe accomunarci tutti e di un “gioco politico democratico” che andrebbe ancorato alla stabilità delle istituzioni. Nel suo “Intorno alla legge” Gustavo Zagrebelski è più esplicito, quando scrive di “volontà di Costituzione o il nulla”. La Costituzione come “pactum societatis”, presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva.
Se manca questo presupposto, si precipita nella kantiana “repubblica dei diavoli”. La Costituzione diventa campo di battaglia e di sopraffazione. Non è forse questa la deriva italiana di questi ultimi anni?
La Repubblica 22.12.09

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