economia, lavoro

"Alla fine il conto arriverà", di Mario Deaglio

Quando si fa politica e si è nel mezzo di una campagna elettorale densa, come l’attuale, di incidenti di percorso, è purtroppo facile lasciarsi prendere dalla retorica e far passare in secondo piano, o addirittura maltrattare, le cifre della situazione economica. Proprio per questo si fa un giusto servizio ai lettori mettendo sobriamente a fuoco la situazione, anche se così si richiede loro di confrontarsi con le cifre, peraltro solo apparentemente aride, che pongono in luce le difficoltà oggettive di oggi.

Fatto pari a 100 il valore del 2005, la produzione industriale italiana raggiunse il suo massimo pre-crisi nell’aprile 2008 con il valore di 108,9. La crisi la fece letteralmente precipitare, tanto che nel marzo 2009 si toccò il valore straordinariamente basso di 81,1 con una contrazione del 26 per cento. La risalita successiva appare troppo lenta: ha portato l’indice di gennaio al valore di 87,9, (-19 per cento rispetto ai livelli pre-crisi) e se continueremo a questa velocità ritorneremo ai livelli di anni che oggi ci sembrano dorati non prima della fine del 2013.

E quando ci saremo arrivati, tenuto conto dei normali aumenti della produttività, indispensabili per restare sui mercati internazionali, l’industria – che ha già subito una perdita di oltre 300 mila posti di lavoro – darà lavoro a un numero di persone sensibilmente inferiore a quello di allora.

Se dalla produzione industriale si passa al prodotto lordo (il «mitico» Pil) il discorso di base non cambia anche se le dimensioni della caduta sono fortunatamente minori: dai massimi del primo trimestre 2008 l’Italia ha fatto registrare, insieme a Germania e Regno Unito, una caduta di oltre il 6 per cento. Il successivo rimbalzo è stato così debole e incerto che non possiamo ancora affermare di essere veramente in risalita, anche se numerosi segnali in vari settori produttivi puntano in quella direzione. Proprio per l’incertezza e la debolezza della ripresa, anche in questo caso ci vorranno diversi anni, assai più di quelli necessari agli altri Paesi avanzati, per tornare ai livelli di prima.

La situazione italiana è quindi molto difficile, ma non per questo deve essere drammatizzata; non appare però appropriato che il presidente del Consiglio la minimizzi, affermando sbrigativamente che «è iniziata la risalita». Come fa chi porta i bambini in gita e, a ogni svolta di strada, dice loro che la meta è dietro l’angolo perché non sentano la stanchezza. Gli italiani, come cittadini e come elettori, non meritano di essere trattati da bambini, devono essere posti davanti alla gravità della situazione e alla responsabilità che essa comporta.

Il presidente del Consiglio non è il solo capo di governo che cerca di indorare la pillola; e proprio per questo giunge appropriata la «lavata di capo» che la Banca Centrale Europea (Bce) ha rivolto ieri a tutti i governi della zona euro. La Bce ha il compito di salvaguardare la stabilità monetaria, afferma sostanzialmente che i conti vanno pagati, che, essendo terminata la fase dell’emergenza, non continuerà a immettere liquidità nel sistema economico europeo in grandi quantità come ha fatto finora. La ricreazione è finita, in altre parole, e tutti i Paesi devono rimettersi in regola con i famosi parametri di Maastricht.

A questo punto non basta affidarsi all’ottimismo, sostenere che la crisi è psicologica, o che addirittura non esiste; anche perché la caduta produttiva europea ha le sue origini nel forte calo delle esportazioni più che dei consumi interni e contro di esso non bastano consumatori più allegri. Il presidente del Consiglio – e con lui gli altri capi di governo europei – dica chiaramente se ritiene di seguire la strada indicata dalla Banca Centrale oppure preferisce non accettare questa guida molto ortodossa e molto «noiosa» che obbligherebbe a «fare le riforme». «Fare le riforme» è nulla più di un eufemismo per dire che, non solo in Italia ma in tutti i Paesi europei, occorre ridurre sensibilmente, a parità di servizi erogati, il numero dei pubblici dipendenti, aumentare la concorrenza nelle professioni cosiddette «libere», far calare le aspettative pensionistiche e forse anche una parte delle pensioni attuali. Si tratta insomma, sia pure in dosi più limitate, della «ricetta greca» che viene visceralmente rifiutata nelle strade di Atene e Salonicco.

Se non si vuole seguire quella strada, un’alternativa c’è, pericolosa e alquanto eretica ma forse politicamente più accettabile. L’ha delineata Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, e comporta la cosciente accettazione di un tasso di inflazione sensibilmente più alto dell’attuale (il 4 per cento); quest’inflazione dovrebbe essere controllata, agirebbe da anestetico e consentirebbe di lenire la durezza delle riforme, «spalmandola» su un numero maggiore di anni. Si tratta naturalmente di una strada pericolosa perché, una volta lasciata fuori dalla sua gabbia, non è sicuro che l’inflazione sia controllabile.

In definitiva, in questa situazione i politici sono chiamati a fare i politici: a prendere delle decisioni e assumersene le responsabilità. Non a risolvere tutto con qualche battuta, sperando che questa metta il buon umore a cittadini giustamente preoccupati.
La Stampa 12.03.10