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“Di che opposizione si tratta”, di Federico Geremicca

Quando una coalizione di governo dispone di una maggioranza fatta di decine e decine di parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato, è chiaro che qualunque tentativo dell’opposizione di determinarne una crisi in Parlamento non può che esser destinato al fallimento.

La richiesta di voto segreto su questo o quel provvedimento (quando possibile) è solitamente destinata a non riservare sorprese, e la presentazione di mozioni di sfiducia può perfino sortire l’effetto paradossale di rafforzare l’esecutivo. Chi dunque oggi è insoddisfatto dell’azione del governo e però contemporaneamente rimprovera all’opposizione scarsa efficacia nel suo agire, non lo fa certo immaginando che l’occasione della caduta dell’esecutivo sia lì a portata di mano (e ciò nonostante non venga, colpevolmente, colta). Quel che si intende piuttosto lamentare, è il perdurare di una certa afasia politica che rischia di portare fuori dalla rotta annunciata durante le primarie anche la segreteria di Pier Luigi Bersani.

Se infatti si erano ben intesi i progetti dell’ex ministro allo Sviluppo economico e dei suoi sostenitori, il «nuovo» Pd avrebbe dovuto caratterizzarsi per poche ma notevolissime innovazioni. La prima: fine dell’antiberlusconismo urlato quasi a prescindere; la seconda: ritessitura di una politica delle alleanze che archiviasse la stimolante ma vana linea della cosiddetta «vocazione maggioritaria»; la terza: costruzione e radicamento sul territorio di un partito da definire – in conseguenza delle prime due novità elencate – più ancora che di «opposizione», di «alternativa». Ora, pur tenendo naturalmente conto che l’ascesa di Bersani alla guida del Pd risale ad appena un mese fa, bisogna dire che le svolte annunciate fanno fatica non solo ad affermarsi, ma in certi casi perfino ad essere percepibili. E tale ritardo – com’è inevitabile – risalta ancor di più di fronte alla situazione in cui versa la maggioranza di governo: che lo stesso Bersani, con sintesi efficace, ha definito di «confusione micidiale».

Esempi se ne potrebbero fare diversi. Qui basta limitarsi a due, tre episodi: capaci comunque di dare il senso di quanta «micidiale confusione» alberghi ancora anche nel quartier generale del Pd. I rapporti con Di Pietro e con «la piazza»: sabato va in scena il no-Bday e tra i democratici, intorno al cosa fare, regna la stessa «confusione» che segnò, in passato, la vigilia di iniziative simili; le questioni che riguardano le vicende giudiziarie del premier: tema assai delicato sul quale – però – si oscilla dai «no» a ogni iniziativa legislativa proposta (dal lodo Alfano al «processo breve») fino alla presunta legittimità del capo del governo a difendersi non solo «nel» ma anche «dal» processo; infine, la scelta dei possibili candidati-presidenti in regioni chiave come la Puglia, il Lazio e la stessa Campania: non solo le scelte restano nervosamente in alto mare, ma su questo terreno il «nuovo», eredità del Pd veltroniano (le primarie), e l’«antico», che si intende riportare in auge (trattative tra partiti e politica delle alleanze), stanno determinando il più insidioso dei cortocircuiti.

In fondo è per questo che può sorprendere ma non scandalizzare il commento col quale, l’altra sera a Ballarò, l’analista americano Edward Luttwak ha sintetizzato l’animo con cui la diplomazia statunitense guarda allo scontro in atto tra il premier e Gianfranco Fini: «Considerando che l’opposizione non lo è, almeno ora sappiamo che c’è un’alternativa a Berlusconi: si chiama Fini». Sarà pure un osservatore di chiare simpatie repubblicane, ma è difficile non intendere quel che Luttwak ha voluto dire: un ricambio possibile – anzi: il ricambio forse oggi più possibile – non è tra maggioranza e opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza. Non è certo un giudizio che possa rallegrare il nuovo gruppo dirigente del Pd, ma sarebbe saggio tenerne conto. Non foss’altro che poiché l’Italia – e la stessa opposizione in questo Paese – ha già conosciuto una stagione nella quale ricambi e alternanza tra leader della stessa maggioranza (anzi, dello stesso partito) erano la norma. Non andava bene il conservatore Rumor? Ecco in campo Aldo Moro. Le élite non tolleravano più i modi spicci di Fanfani? Nessuna paura, arrivava il duttile Andreotti. Sembravano ricambi, e talvolta lo erano davvero. Solo che, seppellita la Prima Repubblica, nessuno immaginava si potesse tornare a una situazione così.
La Stampa 03.12.09

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