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"Stipendi, le italiane costrette ancora ad inseguire", di Raffaelo Masci

Il sito si chiama www.ingenere.it ed è costituito da economiste serie toste. Quindi picchia duro: le donne in Italia prendono il 30% in meno degli uomini. Questo dicono i numeri.
Marcella Corsi, che insegna economia alla facoltà di Scienze politiche della Sapienza, è una animatrice del sito e spiega la questione: «Qui da noi il divario di retribuzione e di reddito tra uomini e donne è ancora molto evidente. La Banca d’Italia pubblica ogni anno un’indagine sui bilanci delle famiglie e, alla luce di questi dati, viene fuori che, fatto 100 il reddito di un uomo, quello di una donna era 68 nel 1977 e dopo infinite battaglie e laboriosi processi di emancipazione, nel 2006, era 79. Salito, dunque, ma di appena 11 punti in 30 anni». Il dato è sconfortante, tant’è che «essere poveri in Italia – continua Corsi – vuol dire nella maggior parte dei casi essere donna single, monoreddito e con figli a carico».

Una elaborazione dell’Ires-Cgil su dati Inps, riferita agli ultimi mesi, è illuminante: retribuzione di un lavoratore pre-crisi 1430 euro al mese. Retribuzione di una lavoratrice nello stesso periodo 1100 euro. Con la crisi la situazione è peggiorata: il lavoratore uomo prende 1105 euro (per effetto della cassa integrazione intervenuta) e una donna 915 euro. Secondo Susanna Camusso, segretario confederale della Cgil, «nel nostro Paese esiste un quadro strutturale che impedisce l’emersione della donna che lavora. Il tasso di “occupabilità” femminile è ancora troppo basso. addirittura nel Mezzogiorno le donne rinunciano anche a cercare un posto».

«Ovviamente la legge non prevede alcuna differenza retributiva – spiega Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare del Censis -. Quindi da un punto di vista contrattuale la paga è identica per uomini e donne. Ma, quando intervengono delle voci aggiuntive, è lì che le donne sono penalizzate: gli assegni per i figli, in genere, vengono caricati sullo stipendio del marito, gli straordinari sono per lo più inaccessibili alla donna che deve occuparsi anche della casa, a eventuali incentivi le donne accedono con maggiore difficoltà. E così via».

In parte, ammette il Censis, il problema è imputabile «anche» ad una cultura remissiva delle donne, le quali spesso – per educazione, per cultura, per retaggio antropologico – hanno «un obiettivo bipolare»: il lavoro sì, ma a patto che lasci tempo alla famiglia. Ci sarebbe, dunque, una sorta di freno autonomamente attivato? «Fino a un certo punto – replica la ricercatrice – in quanto la donna si fa carico di tutto il welfare familiare, solo perché in questo non ha altri sostegni. Tant’è che, dove la collettività e i maschi si prendono le loro responsabilità, la situazione è molto diversa. In Svezia, per citare il Paese più attento alle tematiche di genere, una donna dedica alle cure domestiche 3 ore e 40 minuti al giorno e un uomo 2 ore e 23 minuti. L’Italia è in fondo alla classifica Ocse con 5 ore e 20 per le donne e appena 1 ora e 35 per gli uomini. E’ vero che le giovani generazioni hanno cambiato l’andazzo, ma solo perché danno meno importanza alla cura della casa, la quale, tuttavia, per quel poco che resta, spetta ancora alla donna».

E questo nonostante le donne italiane studino sempre di più e con maggiore profitto rispetto ai maschi. Nel 1970 le ragazze all’università erano il 9,2%. Nel 2000 (10 anni fa) erano già il 40,4% e oggi sono la metà. «Ma una cultura pregiudizialmente ostile alle donne è molto difficile da sconfiggere – dice Vaccaro – tant’è che se è vero che in alcune professioni la componente femminile è aumentata (per esempio nella scuola e nella medicina) è anche vero che, proprio per questo, il prestigio di queste attività è diminuito».

La sigla «Gei» indica l’indice di parità di genere che, elaborato da una sessantina di organizzazioni internazionali, valuta l’istruzione, la condizione economica e la partecipazione alla gestione del potere: «Questo parametro – spiega la giovane economista Elisabetta Segre – vede la Svezia a quota 89 su 100, seguita dalla Finlandia a 85, la Norvegia a 84, la Germania a 80, come il Ruanda e altri Paesi africani. La media mondiale è 61. L’Italia si salva per un pelo: 65. Ma viene dopo il Botswana, la Bielorussia e Santo Domingo».
La Stampa 20.01.10