politica italiana

"La filastrocca del complotto", di Giuseppe D'Avanzo

È “una persecuzione e, come sempre, prima delle elezioni”, dice Berlusconi come da copione. C’è qualcuno che ancora può credere che i tempi di un’indagine possano essere regolati sull’agenda politica? Niccolò Ghedini, il chierico per eccellenza, finge di crederlo e lo suggerisce. È il primo a uscire allo scoperto. Ghedini indossa molte maschere nel teatro di Silvio Berlusconi. È l’avvocato delle difese corsare che proteggono il presidente del consiglio negli affari milanesi.

È il soprintendente, controllore e coordinatore, di un multiforme sistema legale – nazionale e internazionale – che si preoccupa di rappresentare trasversalmente gli interessi di imputati e testimoni che potrebbero mettere nei guai, da Bari a Los Angeles, il capo del governo. È il parlamentare che ispira, sulle questioni di giustizia, i lavori della Camere. È il ministro di giustizia effettivo, anche se in via Arenula non ci mette mai piede: Angelino Alfano è solo l’attor giovane in scena e si può essere Guardasigilli anche da Palazzo Grazioli o Villa San Martino. Di Ghedini sono le sofisticherie, le furberie, i mostri disseminati – senza risultato, finora – nei codici e nelle procedure per evitare al Cavaliere processi e sentenze. L’avvocato di Padova ha imparato da Berlusconi un’arte affabulatoria, con il tempo diventata monotona. Ricordate? Al Cavaliere capitò di negare – e con sdegno – di aver riformato a uso proprio il falso il bilancio e le rogatorie. Me lo imponevano le norme europee, disse.

La pretesa di negare quel che tutti sanno e ricordano è la strategia abituale di Berlusconi e Ghedini. La si può rappresentare così: in pubblico, respingere ogni evidenza con un assalto istrionesco e idrofobo appena una toga si avvicina al Cavaliere (seguirà tempesta mediatica dei giornali della casa e la claque dei Tg obbedienti). In tribunale, in assenza di giudici pieghevoli, difesa a istrice, asfissia ostruzionistica, infiniti cavilli perditempo. In parlamento, leggi ad personam. Dinanzi all’opinione pubblica, denuncia dell’aggressione giudiziaria.

Lo spettacolo va in scena anche ieri sera quando diventa ufficiale che il pubblico ministero di Milano ha concluso le indagini sui metodi di Mediatrade ipotizzando per Silvio Berlusconi l’appropriazione indebita delle risorse di Mediaset (quotata in Borsa).
Il fabulario di Berlusconi e Ghedini prevede a questo punto l’evocazione (noiosissima) di un complotto politico: i pubblici ministeri colpiscono ora “perché si sta riformando la giustizia e a marzo si vota per le regionali”. Dimentica, l’avvocato mille maschere, che addirittura da ottobre 2009 si sa che quell’indagine è di fatto chiusa. Ghedini ne conosce il merito, le fonti di prova, gli atti, i documenti, le testimonianze, i tempi e l’impianto organizzato dall’accusa, ma gridare all’accanimento investigativo è sempre una buona medicina per non affrontare i fatti.

I fatti? Dove sono i fatti? Quali sono? È il secondo passo, rituale come una filastrocca precostituita. Dice Ghedini: “Le contestazioni mosse hanno dell’incredibile sia per il contenuto sia per gli anni a cui si riferiscono, periodo in cui Silvio Berlusconi non aveva la benché minima possibilità di incidere sull’azienda”. Anche una superficiale verifica smaschera il gioco. L’affarismo societario nascosto in Mediatrade affiora con una domanda: perché un gigante come Mediaset rinuncia a trattare i diritti televisivi direttamente con le majors per affidare la faccenda a un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama? Il pubblico ministero ritiene di avere dimostrato che Agrama acquistava i diritti e poi li rivendeva alle società di Berlusconi “a prezzi enormemente gonfiati”. A Los Angeles li comprava a cento. A Milano li rivendeva a mille. E la differenza tra cento e mille restava all’estero e Agrama si preoccupava, molto curiosamente, di “restituire” i profitti su conti nella disponibilità di manager Mediaset, in Svizzera, nel Principato di Monaco, alle Bahamas.

Possibile che Berlusconi si facesse truffare come un sempliciotto da quell’americano? O non è il caso di pensare che quell’Agrama sia un socio occulto di Berlusconi? Purtroppo per Ghedini, come per la corruzione di David Mills, nell’inchiesta oggi conclusa appaiono testimoni che, cittadini di un altro mondo dove mentire è pericoloso e indecente, la raccontano tutta. Come Bruce Gordon, responsabile della vendite della Paramount. Dice Gordon: “In Paramount le società di Agrama sono indistintamente indicate come Berlusconi companies e l’esposizione creditoria come Berlusconi receivables”. Gordon dice che l’ascesa al governo di Berlusconi non ha mutato di una virgola quella situazione. “Agrama – ricorda Bruce Gordon – ci diceva che continuava a riferire a Silvio Berlusconi sulle negoziazioni per l’acquisto dei film anche dopo la sua nomina a presidenza del consiglio”. Dunque, non esistevano gli affari di Agrama, ma soltanto quelli di Berlusconi. Che poi il Cavaliere governasse un paese, che importa?
Questo il quadro (ipotetico, beninteso). Questi i fatti che – certo – possono essere controversi ed è per questo che si fanno i processi: in un processo leale (quindi, giusto), “la difesa è una forza che resiste all’accusa e non che sfugge all’accusa”. Ma nonostante sia il suo mestiere, Ghedini disprezza la discussione del merito. Provoca, protesta, deplora, inventa paesaggi sublunari preferendo lavorare alla malfamata immunità ora che il “processo breve” è stato approvato al Senato e il legittimo impedimento lo sarà alla Camera. È una fenomenologia (o una commedia?) che non ha nulla di nuovo. Come nulla di nuovo s’annuncia nel “discorso agli italiani” che Berlusconi minaccia nella notte.
La Repubblica 23.01.10