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"Classi più affollate a settembre. I sindacati: meno qualità. Gelmini: non dipende dalla quantità di prof", di Anna Maria Sersale

Dal prossimo anno scolastico avremo classi più affollate. Alla manovra per ridurre i posti in organico si accompagna l’aumento del numero degli alunni per classe. Il processo è graduale, ma inesorabile. Nelle materne l’anno scorso non si poteva costituire una classe se non c’erano almeno 18 bambini (la precedente normativa ne prevedeva 15). Stessa situazione alle elementari, dove nel 2009 il numero minimo è salito da 10 a 15 per classe. Ma non basta. Dal prossimo anno scolastico le scuole dovranno prepararsi alla fase due: dopo avere alzato l’asticella del numero minimo legale (al di sotto del quale non si può istituire una classe) anche il numero massimo di alunni è destinato a salire. Alle elementari e medie avremo classi con 26-27 ragazzi e alle superiori con 30-33. “Addio percorsi individualizzati e addio qualità – sostiene Gigliola Corduas, presidente della Fnism, la Federazione nazionale degli insegnanti – Non si migliora la scuola tagliando, con le classi affollate sarà impossibile coniugare la qualità con il numero elevato di presenze. C’è una emergenza educativa che non si può affrontare così”.
Per le elementari dal primo settembre il tetto degli alunni per classe potrà salire fino a 25-26, estensibile fino a 27. Identico destino per le prime classi delle scuole medie inferiori. Anche le prime classi delle superiori saranno costituite di norma da almeno 27 studenti, prima erano 25. La stretta non risparmia le pluriclassi, quelle che ospitano bambini di gradi diversi di scuola: il numero minimo per loro passa da 6 a 8 e il massimo da 12 a 18. “Con le classi da 30-32 ragazzi – sottolinea la Corduas – si fatica a uscire dai vecchi modelli, così si torna alla scuola dei percorsi standardizzati. Ma la centralità dell’alunno non era una priorità?”. “Meno ore di lezione, meno insegnanti, meno offerta formativa, la politica dei tagli indebolisce la scuola”, denunciano in coro tutti i sindacati, dai Confederali ai Cobas. Domenico Pantaleo, Massimo Di Menna e Francesco Scrima, i segretari di Cgil, Cisl e Uil, aggiungono: “Con la legge 133 del 2008 nel triennio 2009-2011 vengono soppressi 87.400 posti per gli insegnanti e 45.334 posti per i tecnici e gli amministrativi. Anziché investire, penalizziamo l’istruzione”. Il taglio dei moduli nella scuola elementare e la riduzione delle compresenze sono state una delle leve usate per ridimensionare il numero delle cattedre. A questo si aggiunge la riduzione dell’orario scolastico.
Ma per il ministro Mariastella Gelmini “non possiamo credere all’assioma più insegnanti, più qualità”. “Non è più sostenibile quel principio – sottolinea il ministro – perché finora è stato smentito: il confronto tra noi e gli altri Paesi dimostra che il sistema scolastico italiano ha sì un maggior numero di insegnanti ma una minore qualità. Tra l’altro l’Ocse da anni rimarca che da noi il rapporto docenti-alunni è il più basso fra i Paesi aderenti: abbiamo un insegnante ogni 10-11 alunni. Perciò il contenimento degli organici previsto dalla legge finanziaria non può incidere, per questi motivi, sulla qualità ed efficienza dei servizi scolastici”. In ogni caso, assicura la Gelmini, le “dotazioni organiche terranno conto delle esigenze degli utenti, a cominciare dal tempo pieno”. Sul rapporto docenti-alunni i sindacati replicano che da noi è più basso per via dell’impiego di molti insegnanti nel sostegno ai disabili (in media uno ogni due portatori di handicap, in Europa questi alunni vengono inseriti in classi differenziali che costano più di quanto spendiamo noi).
Due tesi contrapposte, quelle del ministero e quelle dei sindacati, intanto nelle scuole il malumore sale e l’Ocse ad ogni rilevazione restituisce della scuola italiana un’immagine da terzo mondo. Gli analisti attribuiscono molte colpe al sistema scolastico centralizzato e uniforme e alla politica di risanamento in atto nel settore da oltre dieci anni, con il taglio progressivo dei finanziamenti, proprio nel momento più delicato del passaggio all’autonomia scolastica. Dopo anni di spese con il segno positivo, i tagli radicali, non accompagnati da una revisione di qualità dei programmi di studio e dell’organizzazione del lavoro, hanno spinto il sistema scolastico giù lungo il crinale. Eppure nel 2000 anche l’Italia sedeva al vertice di Lisbona per decidere che l’Europa sarebbe dovuta diventare in dieci anni l’economia della conoscenza più competitiva del mondo. Però, mentre gli altri paesi hanno iniziato a correre noi ci siamo fermati. Con risultati disastrosi nell’apprendimento, soprattutto al Sud. Nei punteggi delle prove Pisa-Ocse siamo sotto la media. Ma è la percentuale degli espulsi, dei drop-outs, che ci colloca fuori dall’Europa: il 20% dei giovani, tra i 20 e i 24 anni, ha solo la licenza media.
Ma quanto spendiamo per la scuola? Tra il 1995 e il 2005 da noi la spesa per studente nella primaria e nella secondaria è cresciuta al massimo del 5% contro il 35% della media dei paesi Ocse. Nello stesso periodo anche la spesa per istituto è stata notevolmente inferiore: soltanto il 12% contro il 41% della media Ocse. Ma la spesa media per studente oggi in Italia si attesta intorno a 6.800 dollari all’anno, contro una media Ocse di 6.252 dollari a livello della scuola primaria e a 7.648 contro 7.804 dollari per la secondaria. Dunque, c’è stato un parziale avvicinamento. Ma da noi resta, enorme, il problema della decadenza formativa, che già nell’età dell’obbligo ha cifre davvero inquietanti
Il Messaggeri 15.03.10