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«Cambiamo insieme. Bersani: "Il Paese è stanco Saremo noi a ridare fiducia agli italiani"», di Concita De Gregorio

Non è presto né tardi, il tempo è ora.

Nel giorno di vigilia Pier Luigi Bersani torna a parlare del «cantiere», quello che descrisse al congresso: il luogo dove si costruisce l’alternativa di governo. Elenca il lavoro fatto, quello che resta da fare. Non nasconde le difficoltà, parla con fiducia degli alleati, indica i punti di crisi del Pdl e quelli che il centrosinistra deve superare. Siamo a buon punto – ripete più volte – è a portata di mano un successo elettorale che consentirà al centrosinistra di imporre finalmente tre questioni concrete al centro del dibattito politico: un piano anticrisi, uno per la scuola pubblica, una politica di sostegno ai redditi più bassi. Il tempo è ora, dice: il momento di cambiare rotta è adesso.

Il vento sta davvero cambiando, Bersani?
«Sì, il nostro mondo si è rianimato, sento che i nostri argomenti hanno di nuovo presa. Il Paese è stanco dell’eterna vicenda berlusconiana. La crisi è un problema permanente e noi lo abbiamo visto dal principio. Serve una politica che dia risposte ai tormenti della vita quotidiana delle persone. Al congresso si diceva: è tardi per partire. Invece in questo breve tempo abbiamo mostrato di essere il perno per la ricostruzione del centrosinistra. Abbiamo lavorato in modo più amichevole con le forze alla nostra sinistra, coi radicali e con Di Pietro. Abbiamo alimentato la fiducia in uno schieramento che si ricompone. È questo che serve: ridare fiducia agli italiani che l’hanno smarrita».

Sfiducia nella politica, in generale, anche a sinistra.
«Gli strati popolari hanno maturato un elemento di distacco. Noi dobbiamo riprendere contatto con la nostra gente. Non la faccio facilissima. Gli italiani sono molto stanchi. Il berlusconismo ha segnato a tutti i livelli un’attenuazione dello spirito civico, ha toccato in profondità le corde vitali del paese: la tensione etica, politica. C’è bisogno di una riscossa civica ma alle spalle deve esserci una riscossa politica».

Il leghismo dilaga nelle classi popolari.
«È vero, la Lega ha penetrato il nostro elettorato, i ceti popolari. È un partito nato lanciando il tema dell’anticentralismo con un’organizzazione di tipo leninista. Poi, col tempo, è diventato un movimento solo difensivo: in economia, nelle politiche sociali. Ha cavalcato la xenofobia alimentando le paure. Con la Lega, oggi, non bisogna avere spocchia ma neanche titubanza. Bisogna confrontarsi all’altezza degli occhi, dir loro fate i federalisti nel week end e nei giorni feriali sostenete il miliardario con più passione di Cicchitto. Sul palco di San Giovanni a recitare il giuramento dell’imperatore… L’immigrazione è un fenomeno dei tempi moderni, contiene certo anche elementi di disordine. Ma la Lega è stata al governo 7 anni su 9: i ministri li paghiamo perché risolvano i problemi, non perché ci campino eccitandoli. Dunque qual è la proposta? Noi diciamo che dobbiamo stare in questo tempo, non c’è davvero alternativa, e che l’integrazione è un valore fondante della nostra cultura. Non è buonismo. È una necessità storica che si realizza concretamente nelle città, nei paesi attraverso una rete di servizi: bisogna governarla».

Gli stranieri tolgono lavoro dove già ce n’è poco, è questo il tormentone.
«Nei momenti di crisi si sviluppa l’impressione della concorrenza tra ultimi. I dati dicono però che la maggior parte degli immigrati svolge lavori che la nostra gente ha via via abbandonato, come avviene in tutte le società. Quel che non è un’impressione, invece, è la competizione nel sommerso. Ma allora bisogna lavorare lì, far emergere il nero. Bisogna dare una spinta all’economia».

Come, di fronte a una crisi così grave?
«Rafforzando gli investimenti pubblici, con rapidità. Un grande piano di piccole opere fatte dai comuni sarebbe una benedizione. Si deve investire nel settore energetico, nel ferroviario, nelle telecomunicazioni. Dare un colpo d’urto settore per settore, compreso quello agricolo. Rimettere in moto la macchina con un cantiere di riforme industriali».

Non teme che gli appalti pubblici possano essere nuova linfa per la corruzione che dilaga?
«Il verminaio che abbiamo sotto gli occhi è reso possibile dalla costante deroga alle leggi. O dalla violazione, ma allora parliamo di illegalità. Se stai nella norma è molto ma molto più difficile che la corruzione si alimenti. Bisogna che le regole siano essenziali, questo è vero: che non costiuiscano ostacolo allo sviluppo, e dunque se necessario bisogna semplificarle. Però non devono essere derogabili. Se no finisce che lavorano gli amici, e gli amici degli amici, come si vede».

E siamo al punto: la legalità.
«È un’emergenza. Siamo sotto la soglia minima, a cominciare dalla grande criminalità che come abbiamo visto dalle più recenti vicende ramifica ovunque. Da un governo devono venire indicazioni che alzino e non abbassino l’asticella della legalità. La magistratura deve essere in grado di svolgere il suo compito con tutti i mezzi necessari. Le intercettazioni si possono regolare ma assolutamente non eliminare come fonte di prova. Mi scandalizza l’inclinazione condonistica di questo governo. Semina sfiducia, disordine. Lo scudo fiscale ha cancellato irregolarità e reati. E’ una ferita per la cultura, per l’etica del Paese».

La cultura. Parliamo di scuola.
«Dico solo che nonostante il mago Brunetta abbiamo aumentato di 12 miliardi la spesa per beni e servizi nella pubblica amministrazione. In compenso alla scuola pubblica sono stati tagliati 8 miliardi in 3 anni. Una riduzione di offerta formativa in termini quantitativi e qualitativi che è in controtendenza cosmica. Un disinteresse assoluto per il futuro di questo paese. È da qui che dobbiamo ripartire. Un buon risultato alle regionali ci consentirebbe di mettere subito in agenda tre punti: un serio piano anticrisi, risorse per la scuola, sostegno sociale alle fasce di reddito più deboli».

Cosa intende per “buon risultato”?
«Coi voti delle europee e le alleanze delle politiche avremmo vinto in 3 o 4 regioni. Coi voti delle europee e le nuove alleanze in 6. Io dico che possiamo vincere nella maggioranza delle regioni. Nel Lazio, in Piemonte siamo sul filo. C’è una grande spinta, è una partita da giocare. Del resto tutti assieme abbiamo a posto la coscienza».

Tutti assieme nel senso delle forze alleate? Non teme un successo elettorale di Di Pietro?
«Non temo il successo di chi sta da questa parte, no. Temo il successo dell’avversario, non dell’alleato. E anche: se voglio accorciare le distanze dagli alleati devo creare una psicologia di campo. Augurarmi che si cresca tutti, l’uno nel rispetto dell’altro. Rafforzare lo schieramento, riaprire il cantiere – penso anche a Sinistra e Libertà – senza annessioni. Certo non è vietato, naturalmente, che io mi auguri insieme un buon risultato del Pd. Considerando che il 7 regioni su 13 presentiamo anche liste civiche sono convinto che i risultati ci daranno ragione».

Suggestioni francesi?
«Da noi la tensione dello scontro è enormemente più alta che in Francia. Berlusconi ha radicalizzato il conflitto con le parole d’ordine che sono nel suo stile: il bene e il male, quella roba lì. La nostra è una destra abile a sollevare i problemi, non a risolverli».

Vendola ha detto, in piazza del Popolo: togliamo noi per primi le mele marce dal nostro cesto. Lo hanno molto applaudito.
«Dobbiamo occuparci anche di noi, certo. Due indicazioni. Primo: la magistratura fa il suo lavoro e non si mette becco. Secondo: non si può affidare il compito solo alla magistratura. Dobbiamo stringere i meccanismi di deontologia interni. Penso a una legge sui partiti nella quale la deontologia abbia il rilievo di un codice. Questo il criterio generale, poi c’è il nostro. Noi dobbiamo sempre essere un metro più in là perché la nostra gente, giustamente, ci perdona di meno».

Pietro Ingrao compie 95 anni. Dice oggi all’Unità della sua preoccupazione perché “tarda a crescere un soggetto collettivo antagonista”. Tarda, Bersani?
«Con molti auguri a Ingrao, gli dico: voglio che il soggetto sia questo. La sinistra esiste in natura, se uno non la interpreta lo farà qualcun altro. Ecco, io non voglio che lo faccia qualcun altro».

da www.unita.it