Il voto di fiducia è come una messa solenne nel tempio delle istituzioni. Celebra la sacralità del Parlamento, che attraverso questo rito sceglie un nuovo papa, o riconsegna al vecchio le chiavi pontificie. Ma al contempo celebra i governi, innalzandoli alla gloria dell’altare. Invece la politica italiana ha trasformato la messa in messinscena, la liturgia in commedia. Se i santini sono questi, per noi fedeli sarà dura raccoglierci in preghiera.
È il caso, innanzitutto, del governo Berlusconi. Davvero c’è da attendere il 14 dicembre per decretarne i funerali? Davvero lo stesso giorno potremmo viceversa assistere al miracolo della sua resurrezione? È insomma un voto in meno o in più che può restituirci un esecutivo autorevole e longevo?
Evidentemente no, non è così. Se anche Berlusconi la spuntasse per il rotto della cuffia, il giorno dopo si ritroverebbe come Prodi, appeso agli umori del trotzkista Turigliatto o della moglie di Mastella. L’Italia ha urgenza d’una stagione di riforme, ma nessuna compagine ministeriale potrà mai inaugurarla senza una forte base in Parlamento.
Servirebbe dunque guadagnare nuovi soci, allargare la coalizione di governo con un programma condiviso.
Servirebbe, in breve, la politica; invece a Montecitorio va in onda il calciomercato. Signori di mezza età corteggiati come fanciulle in fiore, adescati uno per uno. Oppure comprati con qualche lingotto d’oro, se è autentico il sospetto della procura di Roma.
Ecco, il sospetto. Sta corrodendo la residua credibilità del Parlamento, proprio nel giorno che avrebbe dovuto sancirne il primato. In Italia nessun governo è mai caduto in seguito a una mozione di sfiducia (Prodi si dimise dopo una «questione» di sfiducia, che è cosa diversa): sempre crisi extraparlamentari, consumate scavalcando le assemblee legislative. Adesso no, le Camere sono tornate al centro della scena. Ma la crisi in Parlamento via via si è tramutata in una crisi del Parlamento, e quest’ultima ha infine messo in crisi le garanzie costituzionali che proteggono la dignità delle due Camere.
Qual è infatti la trincea giuridica su cui si è asserragliato il centrodestra? L’art. 67 della Costituzione, che pone il divieto di mandato imperativo. Se ogni deputato è libero di votare un po’ come gli pare, sarà anche libero d’accettare incenso e mirra per ogni voto espresso. Ma libero rispetto a chi? Rispetto alla mamma, alla sorella, al Popolo della libertà? No, libero rispetto ai suoi elettori. Peccato tuttavia che i nostri parlamentari, grazie al porcellum, siano stati scelti dai partiti, non dagli elettori. Peccato quindi che la garanzia del libero mandato si sia svuotata come un uovo per assenza del mandato.
C’è però un’altra garanzia costituzionale, sta appena un rigo sotto. Si conserva nell’art. 68, che proclama i membri del Parlamento insindacabili per le opinioni e i voti in aula. Da qui un’irresponsabilità giuridica, che a sua volta è di tre tipi. Civile (se rivelo un segreto industriale, nessuno potrà chiedermi i danni). Penale (se ti diffamo durante un discorso in Parlamento, non hai il diritto di sporgere querela). Disciplinare (se critico il ministro di cui sono dipendente, lui non potrà applicarmi una sanzione). E se invece voto la fiducia in cambio della cassaforte di Zio Paperone? Alla lettera, l’art. 68 vale pure in questo caso. Ma fu concepito per proteggere la libertà intellettuale dei parlamentari, non la libertà di mettersi all’asta. La loro indipendenza, non la dipendenza dal denaro.
C’è allora una lezione che ci impartisce questo tempo di briganti. La malattia etica che ha fiaccato la politica reclama una nuova etica politica, non le medicine del diritto, non il soccorso della Costituzione. Anche perché la nostra Carta è la prima vittima di questa malattia. Ma riesce ancora a vendicarsi, sia pure mentre esala l’ultimo respiro. Se infatti il voto del parlamentare corrotto è insindacabile, l’offerta del parlamentare corruttore no: quell’offerta non è un voto, non è un’opinione, non è protetta dal divieto di mandato imperativo. Sicché alla fine della giostra la procura di Roma potrebbe fare un’esperienza inversa rispetto alla procura di Milano. Nel caso Mills c’era un corrotto senza corruttore (improcessabile); qui avremmo un corruttore senza corrotti (improcessabili). Mezzo reato per un Parlamento dimezzato.
La Stampa 12.12.10