attualità, politica italiana

"La trincea del colle", di Aldo Schiavone

Il Capo dello Stato è ormai l´unico punto fermo nella politica estera della nostra Repubblica. Il solo che cerchi di sottrarre la presenza internazionale dell´Italia, il suo ruolo e il suo profilo, a un gioco al massacro di annunci, di sotterfugi e di strumentalizzazioni al quale mai prima d´ora ci era toccato di assistere. L´evidenza di questo dato di fatto – che fuori d´Italia, a cominciare dalla nostra stessa diplomazia, è ormai una realtà indiscutibile – è una prova ulteriore del punto cui si è arrivati, e dei rischi che sta correndo il Paese in questi mesi.
Il pacato ma assai fermo richiamo di Napolitano al rispetto dei nostri impegni in Libia, sanciti peraltro da un voto del Parlamento, è l´ultimo intervento, ma non certo il meno importante, in questa azione di puntellamento, di correzione e di supplenza d´autorevolezza – ma non certo il meno importante – resosi indispensabile dopo i proclami domenicali di Pontida. Che un Roberto Maroni in veste d´agitatore molto più che di ministro abbia poi cercato d´ignorarlo, ribadendo la posizione bossiana, non fa che rendere ancora più grave la situazione, aggiungendovi la misura di una personale, scomposta inadeguatezza.
Diciamolo ancora una volta, con la maggiore chiarezza possibile: qui il pacifismo – l´alta e antica vocazione culturale pacifista dell´Italia, che ci arriva da molte e belle tradizioni – non c´entra niente, ma proprio niente. In questo triste caso, si tratta di ben altro. Solo di un desolante calcolo demagogico. E infatti. A Bossi non importa niente delle bombe, della sofferenza del popolo libico, delle atrocità della guerra, delle grandi ispirazioni culturali del nostro Paese. Importa solo esibire alla sua gente (o, ormai, a quel che crede la sua gente), che egli sta facendo di tutto per fermare l´onda dei profughi, per allontanarla dai nostri confini. Bossi sa benissimo che un disimpegno unilaterale dell´Italia da solo non servirebbe a fermare la guerra, e tantomeno l´arrivo dei fuggitivi. Ma a lui questo importa poco. Importa solo poter dire ai suoi che loro comunque non c´entrano niente; poter evitare che qualcuno pensi che possa esservi un rapporto di causa ed effetto fra le scelte del Governo e l´arrivo notturno di quelle povere barche. La tragedia lo lascia indifferente, forse nemmeno la percepisce (non sa dire altro che: “fora da i ball”). Vuole unicamente lavarsene le mani, in modo filisteo, per essere libero di mettere in campo la sua demagogia isolazionista. In testa non ha la pace: ha i respingimenti, e la loro retorica avvelenata. Se potesse, schiererebbe la flotta, a proteggere il guscio dentro cui star chiusi. E perciò il richiamo di Napolitano è lontanissimo dal collocarsi dal lato della guerra, contro chi invoca la pace: è solo dalla parte del realismo, della consapevolezza della complessità, della prudente valutazione dei nostri interessi nazionali, che non confliggono per nulla con quelli del popolo libico.
Ma il Presidente Napolitano non deve fronteggiare soltanto il disastro di una Lega in fortissima regressione demagogica. Deve anche far fronte al silenzio e alla fuga del Premier.
Si è detto in questi giorni, commentando le ultime desolate vicende della maggioranza, che siamo tornati al peggior costume democristiano, quello degli ultimi tempi prima della caduta.
C´è del vero in questo paragone. Berlusconi che aveva cominciato promettendo una riforma radicale della politica – quasi una rivoluzione – s´è ridotto ormai, per sopravvivere, a ricorrere proprio a quel penoso armamentario di comportamenti e di astuzie che aveva preteso di spazzare in un colpo solo, con il solo carisma della sua presenza. Eppure in quel che sta accadendo c´è qualcosa che va oltre. I democristiani, loro almeno, un tempo, riuscivano a tener fuori la politica estera dai loro intrighi e dalle loro congiure. Fatta una scelta, la seguivano. Ora nemmeno questa coerenza è salva. La rovina di Berlusconi ci sta facendo precipitare ancora più indietro della crisi democristiana, in un avvitamento senza fine. Per quanto ancora?

La Repubblica 21.06.11