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"Caro Pd, il difficile viene ora", di Stefano Menichini

Pier Luigi Bersani vola oggi a Bruxelles, dove si ritroverà con vari leader europei che condividono almeno tre cose con lui: sono figli della vecchia socialdemocrazia; sono all’opposizione nei rispettivi paesi; hanno (alcuni, non molti) la speranza di tornare presto al governo.
C’è un nesso fra questi tre fattori. La socialdemocrazia si è fatta sovrastare dalle destre che nel momento della frammentazione e della paura sociale hanno dato risposte populiste e di breve periodo, che ora arrivano quasi dappertutto a scadenza ma quasi ovunque vengono messe in crisi più da se stesse che dalla forza di proposte alternative e innovative.
In diversi paesi d’Europa, infatti, la reazione della socialdemocrazia alla sconfitta è stata più che altro di ripiegamento sulle proprie costituencies tradizionali: in prima battuta per frenare l’emorragia elettorale intorno a sé; in prospettiva, nella speranza che il ritorno alle parole d’ordine della protezione potesse rassicurare società scosse dalla crisi e dall’insicurezza.
Questa è stata anche la via di Bersani fino a ora. E sta funzionando, almeno quanto al primo obiettivo: avendo ereditato un partito che veniva dato in liquidazione precoce, il visibile recupero elettorale e di attenzione verso il Pd è già un grande merito del suo segretario, che anche i critici del passato gli devono riconoscere.
Bersani però non è il tipo che si crogiola. Intorno a lui si avverte fastidio perché molti commentatori, non potendo più recitare il de profundis per il Pd, lo accusano adesso di scivolamento a sinistra, di subalternità agli estremismi e di aver smarrito l’ispirazione riformista della migliore stagione ulivista.
Provare fastidio è legittimo – e fa bene Bersani a smontare gli stereotipi quando gli capita – però occorre riconoscere per tempo i problemi. Quelli veri: l’accusa di subalternità a vendolismi, dipietrismi e grillismi è una solenne stupidaggine.
Da settimane stiamo assistendo esattamente allo spettacolo opposto. Cioè a un Vendola che nel rincorrere va in affanno e sbaglia toni e posizioni; a un Di Pietro prima ammansito dal ridimensionamento elettorale e ora precipitato nell’eccesso opposto (pur con la riscoperta di una remota vena liberale); e a un Grillo marginalizzato dai propri stessi spropositi, e alla fine ininfluente dovunque si sia presentato con proprie liste.
Il punto è un altro: la capacità del Pd di vincere proponendo per l’Italia una rottura di continuità e non solo la restaurazione pre-berlusconiana di regole rispettate, buona prassi istituzionale, concertazione sociale.
La tenuta della maggioranza parlamentare, in queste ore, finisce per far somigliare l’attuale crisi di Berlusconi, più che a un collasso, al lento deperimento consumatosi nella seconda metà della legislatura 2001-2006. E allora come lavorò il centrosinistra, mentre Berlusconi declinava e perdeva ogni elezione? Ds e Margherita, si ricorderà, si avvicinarono alla fusione ingaggiando fra loro una competizione fatta di molte cose – non tutte piacevoli – ma soprattutto di rincorsa all’innovazione. Welfare, mercato del lavoro, commerci, fisco per l’impresa minore, università, merito, competizione: nel cantiere di quello che sarebbe diventato il Pd si usavano gli attrezzi più moderni e si affollavano personalità e soggetti organizzati con i quali la sinistra non aveva più contatti, o non li aveva mai avuti.
Il profilo del nuovo lavoratore dipendente della manifattura (oggetto di un sondaggio presentato dal Pd a Genova venerdì scorso, di cui ha scritto ieri Dario Di Vico sul Corriere) non era una scoperta, ma la premessa di un aggiornamento di linea come non ce n’era mai stato.
Che cosa ne fu di tutto quel lavoro voluto e orchestrato da Fassino e Rutelli è noto. Un’enorme mole di innovazione precipitò nell’imbuto dell’esile maggioranza dell’Unione di Prodi, picconata già in campagna elettorale dalle sortite sulla patrimoniale (che aiutarono la rimonta di Berlusconi) e poi definitivamente nei due anni più bui di governo del centrosinistra che si ricordino.
Non tutto andò perduto: quando Veltroni si trovò a varare il Pd, la piattaforma del Lingotto non nasceva dalla sua fantasia personale bensì da tutta quella preparazione. Nel Pd odierno pochi amano rievocare quella stagione. Molti pensano che fosse viziata di liberismo, coda perversa dell’adesione alla Terza via. Forse non c’erano, forse non condividevano: ma la verità è che quel lavoro di rielaborazione nasceva da una sconfitta socialdemocratica già a quel punto consumata, e dunque non ne fu la causa ma casomai una risposta. Si trascura poi il fatto che insopportabili ingiustizie e diseguaglianze in Italia permangono proprio a causa del processo interrotto di liberalizzazione (tentata solo dal centrosinistra, del centrodestra sul tema non vale la pena di parlare), e a causa dei vizi oligarchici esibiti dal nostro capitalismo alla prova dell’apertura del mercato.
Tutti questi problemi stanno ancora lì, lasciati intatti dalla glaciazione berlusconiana. Altrove, come nella Gran Bretagna di Ed Miliband con cui Bersani si incontra oggi, la politica deve fare i conti con crisi e cambiamenti veloci, con un dinamismo sociale magari pericoloso ma molto spinto. In Italia proprio non si può dire che il problema sia l’eccesso di rapidità del cambiamento.
Naturalmente il Pd potrebbe evitarsi troppe discussioni, non ricercare alcuna discontinuità, limitarsi ad aspettare che la mela cada dall’albero: è marcia più che matura, l’evento deve solo consumarsi, la vittoria elettorale è obiettivamente a portata di mano.
Invece lo stesso inventore della metafora della mela, Bersani, ripete spesso di avere ancora tanto lavoro da fare, e che il Pd non può farlo da solo, come non potrà da solo governare il paese: ha ragione su tutti i punti.
Erano fastidiosi ieri sera i toni di Di Pietro alla camera, sono petulanti tanti commentatori, può darsi che ci siano divergenze interne da affrontare su vari punti di programma. Da adesso in poi però il tema non è più come cambiare il governo Berlusconi, è come cambiare l’Italia. Il Pd già adesso può vincere, ma se trovasse toni e proposte giuste potrebbe addirittura sfondare.

da Europa Quotidiano 24.06.11