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"Tangenti, spie e burattinai la corruzione al potere", di Guido Crainz

«C´era un Paese che si reggeva sull´illecito»: lo scriveva Italo Calvino nel 1980, in un fulminante Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che segnalava con lucidità un mutamento decisivo. In quei mesi infatti la tangente Eni-Petromin, lo scandalo dell´Italcasse e altri venivano a confermare un imporsi della corruzione come metodo rivelato già nel 1974 dalle tangenti petrolifere. Quello stesso 1974 in cui era iniziata la parabola discendente di Michele Sindona, inutilmente contrastata da pressioni politiche e criminali (con l´aggressione alla Banca d´Italia di Baffi e di Sarcinelli, e l´assassinio dell´avvocato Ambrosoli). Nel frattempo lo scandalo Lockheed aveva coinvolto, oltre a ex ministri, anche figure di mediatori come Antonio e Ovidio Lefebvre. E ancora nel 1980, mentre Craxi faceva aprire in Svizzera il conto “Protezione”, Licio Gelli usciva allo scoperto sulle ospitali pagine del Corriere della Sera. Poco dopo le liste della P2, rinvenute dai giudici Turone e Colombo nelle indagini su Sindona, faranno emergere meglio la trama che ha i nomi del Banco Ambrosiano di Calvi, dello Ior, della Rizzoli. Ed evocheranno inoltre sia oscure ombre precedenti o presenti (dalle trame eversive del passato sino al ruolo dei servizi durante il rapimento Moro o alla strage alla stazione di Bologna), sia inaspettate proiezioni nel futuro. Anche a prescindere, naturalmente, dai nomi di Berlusconi o di Cicchitto (che sarà allontanato per alcuni anni dal pur comprensivo Psi di allora). Figura in quelle liste, ad esempio, il socialista Teardo, che sarà al centro di uno dei due scandali che nel 1983 fanno già intravedere – in Liguria, appunto, e a Torino – quella devastazione della vita pubblica che crescerà negli anni Ottanta sino all´esplosione di Tangentopoli. Esplosione che ha la sua massima espressione nell´affare Enimont, che culmina tragicamente con i suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini (preceduti da quello – avvolto in più oscure nebbie – di Sergio Castellari). Fra i condannati al processo Enimont vi è un altro nome già presente nelle liste della P2: Luigi Bisignani.
Un commentatore pur moderato come Sergio Romano osservava allora che gli storici della “prima Repubblica” avrebbero letto gli atti giudiziari di Mani Pulite come gli storici della Rivoluzione francese leggono i cahiers de doléances inviati agli Stati generali: affreschi entrambi di due profondissime crisi di regime. Occorrerà comprendere meglio perché – dopo lunga incubazione e inascoltati segnali – siano poi riesplosi quei fenomeni giganteschi di corruzione e di distorsione delle istituzioni che le intercettazioni sulla “cricca” hanno ampiamente rivelato nel febbraio del 2010. Svelando, ad esempio, che la Protezione civile, lungi dall´essere strumento dell´emergenza, si era trasformata nello svuotamento quotidiano della democrazia, completamente privata di norme e controlli: una deformazione che stava per essere istituzionalizzata al livello più alto. In quell´occasione molti hanno osservato che rispetto agli anni di Tangentopoli il “rubare per sé” appare oggi molto più diffuso del “rubare per il partito”. Osservazione sin troppo scontata, dato che i partiti, nella forma di allora, non esistono più: e sciaguratamente questo ha portato talora ad affrontare in proprio, per così dire, i “costi della politica”. Così come ha dato un peso crescente alle cricche e a quelle forme di relazione che le cronache di questi giorni hanno illuminato di luce cruda. Ricordandoci la vecchia intervista di Gelli al Corriere: da piccolo, disse, volevo fare il burattinaio.

La Repubblica 26.06.11

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“L´uomo che trama nell´ombra”, di Filippo Ceccarelli

Per i suoi interlocutori è uno che “sponsorizza”, “sonda”, “suggerisce”, “intercede”. Ma non solo. È soprattutto colui che possiede lo stomaco per fare ciò che altri non vogliono o non possono fare. Ecco, da Machiavelli ai giorni nostri, il mansionario di chi lavora alle spalle della Repubblica
Un ambasciatore debbe su tutto ingegnarsi d´acquistar riputazione, e come la si acquisti Quali siano le cose di chi debbe dar parte al suo signore, e quali d´esse facili e difficili Debbe stringer amicizia co´ faccendieri delle corti, e perché Come dovrà con essi contenersi
Il capostipite è uno dei protagonisti del caso Montesi (1953), il marchese Ugo Montagna di San Bartolomeo Vent´anni dopo si va senz´altro a sbattere sulla figura di Licio Gelli, avventuriero della variante pseudoesoterica nonché attuale presidente onorario della categoria. Tra il pelo sullo stomaco e le mani in pasta si misurano gli inesorabili tratti, e così italiani, del faccendiere. Parola di nobili e sintomatiche ascendenze (Machiavelli, 1513) messa in circolazione per designare una figura quant´altre mai ricorrente nella penombra della storia, che di solito corrisponde al buio profondo del potere.
«Uomo di relazioni» si definisce Gigi Bisignani, e non per caso Gianni Letta ha ripetuto pari pari l´espressione. «Uomo di mondo» avrebbero potuto entrambi dire sciogliendo il volto in un lieto sospiro ormai pacificato, perché via, insomma, è inutile far finta: «certe cose» qualcuno deve pur farle. Per sé, s´intende, ma più spesso di quanto si immagini anche per gli altri.
«Amico di tutti», «il più conosciuto che io conosca» secondo Letta. «Fa cortesie», «aiuta politicamente», «aiuta ad aver contatti», «ha rapporti particolari» articola la Prestigiacomo. Utile esercizio ricostruire il mansionario di Bisignani attraverso le parole rese alla Procura dai suoi più o meno abituali interlocutori. «Sponsorizza persone», «mette in contatto», «ha ottimi rapporti con», «sonda», «suggerisce» (Masi). «Interviene» (Montezemolo). «Ha indubbio potere contrattuale», «presenta», «promette interessamento», pure passando la cornetta del telefono (il manager Basile). «Si adopera per far avere dei vantaggi», «ha aderenze», «intercede» (il generale Ragusa). «Può arrivare un po´ dovunque» (l´onorevole attore e producer Luca Barbareschi).
Ecco, pare tutto questo abbastanza filantropico; ma al tempo stesso suona parecchio ambiguo. I due termini, nel faccendiere, non si elidono, ma anzi si fondono in un´inconfondibile atmosfera in cui l´aiuto confina con la minaccia, la lusinga sfuma nel tornaconto e quindi l´esibita premura può sempre rivolgersi nel ricatto.
Sarebbe bello poter classificare i faccendieri secondo comodi criteri politici, ma non si può e non solo perché ne esistono dappertutto, in tutte le epoche in tutti i partiti e di tutti i tipi. Craxi, per dire, aveva architetti anche raffinati e abbronzatissimi reduci da Murorua e Curacao che gli portavano i quattrini e gli riempivano il frigorifero di champagne, «che poi Martelli si ciucciava» disse poi uno di loro con legittimo risentimento. Così come attorno ad Andreotti giravano tipi anche coloriti e grevi, pure rivali fra loro, uno fu detto dai rivali «l´acquaiolo», veniva dal Msi e poi mercato ittico, finì per mettere su cliniche e giornali. Così come non riescono a trovare pace, nella cronaca giudiziaria, un paio di venditori e/o comproprietari della rinomata barca dell´ex gran nocchiero della sinistra, diciamo. Interessante sarebbe notare come, sospinti dalle rispettive professionalità, i faccendieri si attraggano l´un l´altro, a maggior gloria della specie.
In realtà alle spalle di Bisignani, più ancora della storia, c´è probabilmente la natura umana, con le sue fragilità. In buona sostanza, il faccendiere è colui che possiede il fegato e lo stomaco, appunto, per fare ciò che gli altri non vogliono fare per non sporcarsi le mani. Ma da cui, una volta compiuto, e con le conseguenze anche più gravi per la vita pubblica, traggono indubbio anche se provvisorio e rischiosissimo vantaggio.
La letteratura, il teatro, la poesia abbondano di queste figure. Così, se Calibano, nella Tempesta di Shakespeare, può considerarsi un faccendiere primordiale, tanto selvaggio quanto insidioso e servile, lo stesso Mefistofele del Faust tesse intrighi con sornione cinismo, più di ogni altro consapevole della posta in gioco e dello scambio che con tutta evidenza si stabilisce patteggiando col demonio.
Però l´Italia resta un caso un po´ particolare, o se si vuole un paese pittorescamente e insieme desolatamente faccendiero. Per restare al passato prossimo, il capostipite è uno dei protagonisti del caso Montesi (1953 e seguenti), quel marchese Ugo Montagna di San Bartolomeo, nobile sospetto e già venditore di tappeti, ex fascista pronto a offrire proibiti servigi, compresi stupefacenti e bunga bunga ante litteram, ai nuovi potenti democristiani. Amante del mistero e furfante gentiluomo, scrisse Montanelli che Montagna era «generoso come tutti quelli che pagano di tasca altrui»: e questa è il primo segno di riconoscimento del mestiere. Il secondo, annotato da Gigi Ghirotti, è di natura psicoattitudinale e consiste nel «saper scoprire il debole degli uomini e nel conoscere la malizia della strizzatina d´occhio».
In questo senso, trascorsi vent´anni, si va senz´altro a sbattere sulla figura di Licio Gelli, virtuoso dell´occhiolino e della telefonata fatta ascoltare di soppiatto, avventuriero della variante pseudoesoterica nonché attuale presidente onorario della categoria. Fin da bambino sembra che il Venerabile si esercitasse a prendere la merendina dei compagni per poi fargliela ritrovare, con il che ottenendo la più fiduciosa e malriposta gratitudine.
Con qualche sgomento si può riconoscere che Gelli – che lavorava in coppia con Umberto Ortolani, donde il nomignolo «Il gatto e la volpe» – fu sostituito da quelli che nell´Italia sotterranea degli anni Ottanta divennero i suoi successori.
Uno, il sardo Flavio Carboni, aveva addirittura l´hobby della prestidigitazione e si appiccicò al povero Calvi con tale ardore da presentarsi come «il dottor Penicillina». Con la stessa allegra disponibilità, poteva fornire protezione, affari, forme di pecorino, incontri con monsignori e anche altro. L´altro, Francesco Pazienza, che si muoveva con aerei privati e Rolls Royce, faceva immersioni subacquee e accompagnava i dc oltreoceano, recò in dote al mestieraccio il più scoperto armamentario dello spionaggio, sia pure trovando il suo Tacito in un ruspante imprenditore capitolino, si chiamava Alvaro Giardili, che così ne tratteggiò il profilo davanti a una commissione parlamentare: «Francesco ciaveva un cervello diabbolico, parlava cinque o sei lingue e se li incartava tutti».
Perché in Italia di solito si ride, si ride, si ride: del più surreale dei faccendieri, quell´Igor Marini, pure lui pseudo nobile ed ex cadutista del cinema, che tra fantomatici archivi svizzeri e giganteschi diamanti a Singapore s´inventò cose incredibili su Telekom Serbia provando a sporcare questo e quello. «Cose da pazzi» direbbe forse Bisignani strizzando l´occhio furbo e lisciandosi la pelliccetta che ogni rispettabile uomo di potere e di relazioni si fa crescere attorno allo stomaco.

La Repubblica 26.06.11