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"Monti usi il suo coraggio in casa e fuori", di Giuliano Amato

Non è solo il New York Times a dirci che fra i maggiori istituti bancari e finanziari del mondo circolano da giorni rapporti dedicati alla disintegrazione dell’euro e alle sue conseguenze. C’è di più, al lavoro sul tema, oltre agli analisti, sono stati messi gli studi legali, che già predispongono la conversione in valute nazionali dei contratti oggi in euro. Per molti la domanda non è più se accadrà, ma come accadrà: se – come scrive l’Economist – per il fallimento di una banca o invece per il fiasco di un’asta di titoli pubblici. Ma quale che sia l’occasione, essa è destinata inevitabilmente a scaturire dal progressivo esaurimento della liquidità sui mercati europei.

Insomma, quella che si era manifestata (ed è tuttora trattata) come una crisi dei debiti sovrani è ormai diventata una crisi di liquidità dell’intera Eurozona. È questa la conclusione a cui in tanti sono già giunti, fornendo come prova ben difficile da confutare gli spread che hanno preso ad alzarsi anche per paesi che non hanno problemi di debito, come l’Austria e la Finlandia, e per la stessa Banca Europea degli Investimenti. Ciò significa che i mercati cominciano a tenersi alla larga dai titoli in euro, perché hanno evidentemente percepito difficoltà e disfunzioni che non investono i soli paesi indebitati, ma gli stessi meccanismi a cui è affidata la nostra valuta comune. Del resto, che di malattia dell’euro si tratti lo hanno detto in modo esplicito commentatori autorevoli ed equilibrati come Guido Tabellini, il quale proprio giovedì scorso ha scritto su questo giornale che è tempo di riconoscere gli errori fatti alla nascita della moneta unica, quando ci si affidò a forme di blando coordinamento delle politiche nazionali, del tutto inadeguate a fronteggiare situazioni di shock come quella che stiamo vivendo.

E lo ha scritto anche Paul Krugman, in un articolo non tradotto dalla stampa italiana (che usualmente invece si affretta a tradurlo), nel quale prende in giro quelli che definisce suoi amici, i tecnocrati europei, dipingendoli come impenitenti e crudeli romantici che, dopo aver dato il via all’euro su una piattaforma traballante, continuano ad affidarsi, davanti al disastro che incombe, più all’immaginazione che alla presa d’atto della realtà.

Prendere atto della realtà significa in questo momento più cose. La prima è che siamo davanti ad una assoluta urgenza, nella quale un cambio di rotta deve essere percepito dai mercati nel giro di settimane e non di mesi o di anni, perché col serbatoio a secco possiamo trovarci molto prima e c’è anzi chi già lo sta sperimentando attraverso pagamenti sempre più assottigliati. La seconda è che il cambio di rotta deve venire non solo dai paesi con finanze pubbliche da risanare, ma dall’eurozona nella sua interezza. Fa bene il nostro Presidente del Consiglio Monti a sottolineare l’importanza dei compiti a casa che ciascuno deve fare, ma fatti pure i nostri compiti è ormai chiaro che non si salva l’Italia se non si salva l’Europa. Né è vero che salvare l’Europa dipende solo dalla capacità dell’Italia di salvare se stessa. Certo, se l’Italia questa capacità la dimostra potrà meglio contribuire a un’eurozona a sua volta capace di convincere i mercati che dietro l’euro ci sono istituzioni comuni in grado di difenderne la stabilità e quindi l’esistenza.

E qui viene la terza cosa, l’errore di restare impaniati nella disputa senza fine con la Germania sugli eurobond, che molti di noi ritengono essenziali, e le modifiche dei Trattati che la stessa Germania ritiene pregiudiziali (ammesso e non concesso che poi gli eurobond li accetti). Affidare infatti la prevenzione del disastro ormai atteso a una modifica dei Trattati è semplicemente lunare, perché attiveremmo una procedura destinata a durare oltre un anno, che avrebbe un unico effetto sicuro: quello di costringere il Governo britannico a indire un referendum, che non solo respingerebbe la modifica (facendoci mancare la necessaria unanimità), ma sarebbe colto dal Regno Unito come occasione per uscire dall’Unione. E nel frattempo, forse, l’euro non ci sarebbe già più.

Occorre dunque sforzare le meningi e cercare soluzioni che possano essere accettate senza porre nessuno davanti a quelle «questioni ultime», che provocano inamovibili dinieghi (giusti o sbagliati che essi siano). La ricerca sarà tanto più proficua se si partirà dalla premessa dalla quale qui siamo partiti e cioè che siamo di fronte ormai a una generalizzata crisi di liquidità bisognosa di essere curata in quanto tale. Il che significa che le iniezioni di liquidità necessarie alla cura vanno inquadrate non come trasferimenti fiscali contrari al Trattato, ma per quello che sono, strumenti essenziali alla stabilità dell’euro.

Né si dica che la Bce ha per compito la stabilità dei prezzi e non quella dell’euro. Neppure Don Ferrante arriverebbe a dirlo. Si ripartiscano caso mai i compiti fra la Bce e l’Efsf, il fondo salva stati e si impongano condizionalità adeguatamente differenziate a carico dei beneficiari della liquidità che si viene erogando. Tutte cose che si possono fare senza alcuna modifica dei Trattati. Non dimentichiamo mai che a norma dell’articolo 136 del Trattato oggi vigente «per contribuire al buon funzionamento dell’unione economica e monetaria» il Consiglio può adottare per gli Stati membri dell’eurozona misure aventi il fine di «rafforzare» il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio e di «garantire la sorveglianza» delle stesse politiche economiche nazionali. Tutto, o quasi tutto il carico di poteri intrusivi che la Germania vuole sugli Stati deficitari può passare con l’uso di questa amplissima base legale. E può passare nel giro di poche settimane.
Ma fermo restando il ricorso all’articolo 136 per le misure volute dalla Germania, le strade suggerite per affrontare rapidamente l’emergenza sono molteplici. In chiave non di sostegno alla liquidità, ma di intervento diretto sui debiti sovrani, il Consiglio degli esperti economici del Governo federale tedesco e del Bundestag ha proposto la costituzione di un fondo per la redenzione dei debiti che eccedono il 60% del Pil, come strumento eccezionale e temporaneo, fondato su quello stesso secondo comma dell’articolo 122 su cui si regge l’Efsf.

Non voglio tuttavia entrare nelle non semplici tecnicalità del tema. Voglio solo che sia chiaro che abbiamo assoluto bisogno di urgenti soluzioni comuni. Che queste soluzioni sono possibili e consentite dai Trattati. E che in loro assenza rischiano di essere inutili i sacrifici fatti dai greci e quelli che si accingono a fare gli italiani. Abbiamo un Presidente del Consiglio che ha autorevolezza tanto in Italia quanto in Europa. Dobbiamo chiedergli di usarla su entrambi i fronti, con il coraggio che non gli è mai mancato.

Il Sole 24 Ore 27.11.11