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"Riforme, non fermiamoci qui", di Debora Serracchiani

C’è da supporre che il taglio dei deputati votato al senato non soddisferà la voglia di fare “piazza pulita” con la politica che circola per il paese. È un dramma degli italiani non aver mai fatto una vera rivoluzione e non esser nemmeno mai riusciti a far propria l’autentica cultura del riformismo europeo. Cultura che nelle istituzioni della democrazia, nelle formazioni della politica e nei corpi sociali ha il contravveleno ai morbi della stagnazione economica e dell’arretramento sociale.
Passata la virtuosa fase costituente, quella attuale sarebbe, con Tangentopoli, la seconda volta che nel dopoguerra l’Italia viene scossa dal sussulto antipartitico, tanto da far temere che, concluso l’ingabbiamento in cui la teneva la guerra fredda, la politica non sia in grado di ritrovare la fibra morale e la capacità razionale di dare al paese e a se stessa le regole nuove.
Regole trasparenti e ragionevoli, di cui tutti si rendono conto che c’è bisogno: dai cittadini all’Unione europea. Due esempi per tutti, la riduzione (vera) dei costi della politica e una legge (vera) contro la corruzione. L’aspetto inquietante, però, consiste nel fatto che da questi sussulti, anche da quelli animati dagli sdegni più nobili e disinteressati, assai difficilmente sorge un assetto nuovo e migliore di quello che c’era prima.
Venti anni fa, dopo Mani pulite, abbiamo assistito alla resurrezione dell’uomo forte in salsa televisiva, ed era la negazione dell’ondata moralizzatrice. Rimane perciò legittimo il dubbio che anche questa volta la caduta verticale di credibilità dei partiti possa non essere il presupposto di una palingenesi della politica, e che questo magma, composto da sfiducia, rancore e malessere sociale, dia vita a qualcosa di inaspettato. Forse a qualcosa di simile a quanto visto in altri paesi d’Europa, come la civile Ungheria. La politica dei partiti in Italia è ancora a un bivio. Può seguire l’esempio della corte di Versailles e continuare con i suoi balletti e le sue schermaglie rituali, chiudendo gli occhi di fronte al montare di uno scontento che è tanto più pericoloso quanto più è silenzioso. Oppure può dare prova di essere all’altezza della sfida continentale che l’attende. Si tratta di compiere due azioni parallele e ugualmente importanti: da un lato mettere le mani nelle proprie viscere, per estirparne la zavorra di strutture e comportamenti che si è stratificata nei decenni; dall’altro, sforzarsi di almeno abbozzare quel paio di riforme senza le quali nessuna classe politica può guardare negli occhi il proprio elettorato, e qui parliamo della riforma elettorale e dell’abolizione del bicameralismo perfetto.
Sappiamo bene quanto si riduca sempre di più il tempo utile residuo per intervenire e che, anzi, stia avendo la meglio una sorta di rassegnato scetticismo. È anche per questo che l’allarme lanciato dalla presidente del gruppo Pd al senato, Anna Finocchiaro, è estremamente preoccupante. Perché evoca lo spettro della peggiore delle situazioni, cioè la paralisi della politica proprio nel momento in cui dovrebbe esprimere uno scatto.
Anche il Pd si trova stretto in una morsa: da una parte la necessità inderogabile di sostenere il governo Monti, dall’altra l’impossibilità di fare alcunché senza l’accordo parlamentare col Pdl, cioè con un partito che non esiste più. C’è poco da stare allegri, ma questo non significa che si deve subire in silenzio. Alziamo la voce e diciamo forte e chiaro ai nostri elettori i nostri “sì sì, no no”. Perché quando si andrà alla conta il peso delle responsabilità non può e non dev’essere uguale per tutti.

da Europa Quotidiano 22.06.12