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“L’antisemitismo tra i Forconi”, di Tobia Zevi

Di fronte alle dichiarazioni antisemite poi smentite di Andrea Zunino, portavoce dei Forconi, bene ha fatto Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, a esprimere la sua ferma condanna.
Perché da una parte non possiamo abbassare la guardia. Dobbiamo vigilare, denunciare, ammonire. A cominciare da quelle parole, come ha detto Gattegna, ispirate «dai più violenti e biechi stereotipi antisemiti», che offendono «non soltanto la memoria di milioni di individui che in nome dell’ ideologia nazista trovarono la morte tra le più atroci sofferenze ma soprattutto l’intelligenza, la coscienza democratica e la maturità di quella popolazione italiana le cui istanze ci si propone di rappresentare, evidentemente in modo inadeguato, nella strade e nelle piazze di tutto il paese». Dall’altra parte, dobbiamo evitare che queste esternazioni facciano il gioco di sedicenti leader, inquinando e sporcando le ragioni di un movimento di protesta che, pur tra mille contraddizioni, esprime un disagio crescente in tutta la società italiana.
Il sentiero è assai stretto. Non possiamo permetterci di banalizzare, derubricando a sciocchezze affermazioni di una gravità inaudita (come quando si parla di «barbarie nazi-fascista», escludendo i lager dal novero delle manifestazioni umane, troppo umane), ma dobbiamo percorrere la via del ragionamento. In questo senso ci aiuta quanto descritto su queste colonne da Luigi Manconi, che ha raccontato il rogo recente, in Ungheria, delle poesie di Milós Radnóti, poeta e martire ebreo del Novecento, la cui memoria è presa di mira da gruppi nazistoidi ben coccolati dal partito di governo. Roghi di libri – ricorda qualcosa, sempre a proposito di Forconi? – cui è seguita la distruzione della statua dell’artista.
Solo pochi mesi fa il Congresso mondiale ebraico scelse di tenere la sua Assemblea generale a Budapest per destare l’attenzione del mondo su quanto avviene dalle parti del Danubio: discriminazioni nei confronti di ebrei e Rom; leggi liberticide nei confronti dei giornalisti (Beppe Grillo potrebbe prendere spunto!); impunità per milizie neo-naziste che agiscono e minacciano nei quartieri e per le strade. E vengono alla mente, nella nostra ignavia e nel nostro disinteresse, le parole pronunciate dal direttore dell’Agenzia di stampa ungherese pochi minuti prima di essere assassinato dai soldati sovietici, riportate da Milan Kundera nel 1984: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa».
Che cosa sta accadendo nel nostro continente? Marine Le Pen e i movimenti euroscettici sembrano rafforzarsi e persino prevalere un po’ ovunque, mentre la crisi economica non si interrompe, le diseguaglianze aumentano, e le istituzioni comunitarie si mostrano afasiche di fronte a drammi epocali come i flussi migratori dall’Africa e incapaci di fronte agli aneliti di libertà provenienti dall’Ucraina. I leghisti, dal canto loro, ospitano sia Le Pen sia i Forconi, trait d’union delle pulsioni più preoccupanti in circolazione. È la retorica dei «poteri forti», quella vergognosamente riassunta da Zunino. Una formula abusata che fa perno proprio sulla sua indeterminatezza. E che ha ovviamente grande presa sulla protesta disorganizzata, confusa, rabbiosa, sostanzialmente miope che si manifesta in questi giorni.
Anziché analizzare le ragioni di una crisi epocale, che affonda le sue radici nel ricorso esasperato alla finanza e al consumo di merci e del pianeta; anziché interrogarci sul modello di sviluppo che abbiamo sposato e sugli errori compiuti; anziché studiare i cambiamenti profondi imposti dalla globalizzazione nelle sue mille sfaccettature, ci si rifugia nella sciatteria e nel pressapochismo.
Si umilia la lingua. Ma mentre la precisione linguistica è una prova di qualità democratica (come spiegava George Orwell), la confusione è invece un primo campanello d’allarme. Si va alla ricerca di un capro espiatorio, spesso ancora sfuggente («tecnocrati», «euroburocrati»). Ma su questa china, prima o poi si finisce agli ebrei. Anche se oggi se la prendono anche con immigrati o zingari.
In questo momento gli ebrei ungheresi, se possono, lasciano l’Ungheria. Come mi disse anni fa un leader druso libanese, che certamente non conosceva la poesia di Bertold Brecht: «Quand les juifs partent, c’est un mauvais signe», («quando lasciano gli ebrei, è un brutto segno). Cerchiamo di fare qualcosa.

L’Unità 14.12.13