attualità, università | ricerca

"Scienza quando il biologo fa ricerca nel garage", di Massimiano Bucchi

Nel 2008, un gruppo di celebrità si ritrovò a New York su invito di grandi imprenditori dei media come Rupert Murdoch e Harry Weinstein per uno “spit party”. Gli ospiti della serata, che le testate giornalistiche battezzarono ironicamente “Spitterati”, ricevettero un kit per raccogliere la propria saliva, destinata a test genetici personalizzati. Il servizio era offerto da una nuova azienda nel settore delle biotecnologie, 23andMe. Fondata due anni prima da Linda Avey e Anne Wojcicki (moglie di Sergei Brin, co-fondatore di Google), l’azienda si proponeva come «la fonte attendibile di informazioni genetiche personalizzate su scala globale» e già all’epoca offriva direttamente dal proprio sito web, per soli 399 dollari, un’analisi di 580mila marcatori o variazioni genetiche che promettevano al cliente di sapere, tra l’altro, con quale probabilità avrebbe potuto sviluppare un centinaio di patologie, la predisposizione a un quoziente di intelligenza elevato, se un bambino fosse effettivamente figlio di un certo padre.
Time la mise al primo posto delle innovazioni di quell’anno, e i media previdero che il servizio di 23andMe sarebbe diventato il prossimo status symbol;
al World Economic Forum di Davos l’azienda distribuì mille kit per raccogliere la saliva dell’élite economica mondiale.
Già allora il mondo iniziò a rendersi conto di quale fulmineo sviluppo avesse avuto la tecnologia del settore, mettendo alla portata del singolo paziente dati ed analisi che prima erano accessibili solo ai principali enti di ricerca e istituzioni sanitarie. Ma è di questi giorni l’annuncio dell’azienda californiana Illumina di essere in grado di sequenziare un intero genoma umano per meno di 1000 dollari. Una soglia che all’inizio degli anni Duemila era stata ipotizzata come scenario futuribile, al punto che Craig Venter aveva offerto con la propria fondazione 500 mila dollari a chi l’avesse raggiunto. In pochi anni il costo del sequenziamento è sceso, dai 3 miliardi di dollari investiti per completare il primo, ad un ritmo da far impallidire perfino le “leggi di Moore” sullo sviluppo esponenziale della microelettronica e la riduzione dei suoi costi unitari. Bastano 599 dollari per portarsi a casa OpenPCR, l’Ikea della biologia molecolare: una scatola di montaggio per assemblare da sé la rivoluzionaria tecnica che valse a Kary Mullis il premio Nobel per la chimica, e tutti i disegni e le istruzioni sul web per chi volesse modificare o sviluppare l’attrezzatura. Secondo lo studioso di tecnologia Marcus Wohlsen, «il prossimo Bill Gates della biotecnologia potrebbe sviluppare una cura per il cancro nel suo garage».
Attorno a questi strumenti “low cost”, come spiega Alessandro Delfanti in un suo libro recente, fiorisce non di rado una controcultura che si ispira alle pratiche hacker in campo informatico, in polemica con l’establishment della ricerca biologica ufficiale. DIYbio, ad esempio, è un’attivissima comunità di biologi “fai da te” che offre ai suoi membri supporto informativo, istruzioni per costruire apparecchiature e una micronewsletter formato cartolina, perfetta per chi non vuole dare troppo nell’occhio con i condomini, avendo magari allestito un discreto laboratorio nel sottoscala.
Da un lato, si può guardare a questi fenomeni come a un ritorno della biologia alla dimensione che le era propria sino a buona parte del secolo scorso. I biografi ci raccontano con dovizia di particolari pittoreschi gli esperimenti di Pasteur in un vecchio caffè abbandonato di Arbois, durante la stagione estiva, con un assistente che gli portava acqua dalla fontana e «goffi apparecchi usciti dalle inesperte mani del fabbro e del falegname del villaggio». Gli stessi Watson e Crick condussero le ricerche che li portarono nel 1953 alla scoperta della struttura del Dna in un minuscolo ufficio del Cavendish Laboratory; alcuni anni dopo la scoperta, Crick aveva ancora la propria base operativa in un capannone per le biciclette. Fu solo nel corso degli anni Ottanta che la biologia intravide la possibilità di compiere un salto di scala, intraprendendo progetti ambiziosi anche dal punto di vista delle risorse e dell’organizzazione, sul modello di quelli divenuti comuni in campo fisico sin dal periodo bellico.
D’altra parte, secondo alcuni commentatori, il “genoma da
mille dollari” non avrà, almeno nel breve periodo, impatto sui singoli pazienti, e nemmeno sui medici. La novità, infatti, è rilevante per ora soprattutto per i ricercatori i cui studi coinvolgono numeri elevati di pazienti. Per progetti come quello annunciato lo scorso anno dal premier britannico David Cameron, che ambisce a sequenziare il genoma di centomila pazienti, ridurre il costo unitario di ciascun sequenziamento è fondamentale. Insomma, una scienza low cost, ma non ancora alla portata di tutti, anche tenuto conto del fatto che le apparecchiature Illumina sono vendute in blocchi da dieci per una spesa minima di dieci milioni di dollari.
Ancora più incerto pare il futuro del business “direct to consumer”. Dopo un avvio promettente, 23andMe era arrivata ad offrire test per 99 dollari, con l’obiettivo di raggiungere un milione di consumatori entro fine 2013. Poi sono iniziati i problemi: una causa per pubblicità ingannevole da parte di una cittadina californiana, un giornalista che ha reso note tre contraddittorie diagnosi ricevute per il rischio di infarto (una da 23and-Me, due da aziende concorrenti); il sospetto che la vendita di test sottocosto sia solo un pretesto per ottenere preziosi dati dalla clientela, alimentato da un membro del consiglio d’amministrazione che definì 23andMe «la Google dell’assistenza sanitaria personalizzata». In novembre, dopo una minacciosa richiesta della Food and Drug Administration di documentare l’efficacia dei propri test, l’azienda ne ha parzialmente sospeso la vendita online.
Insomma, il genoma da 1000 dollari che pareva un miraggio una decina di anni fa è arrivato, ma per il resto non è facile prevedere se e quando veramente questa tecnologia diverrà effettivamente di uso comune, e soprattutto quali saranno le implicazioni per l’organizzazione sanitaria e per gli stessi pazienti (o consumatori?). Più facile farsi prendere la mano dall’entusiasmo, e perfino dall’ottimismo, come fece quel senatore che nel 2007 annunciò che «nessuna area di ricerca è promettente come la medicina personalizzata ». Chi era? Lo conoscete: Barack Obama.

La Repubblica 04.03.14

2 Commenti

    I commenti sono chiusi.