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"Lleft e la fine del «tabù giustizia» nel dopo-Berlusconi", di Giovanni Maria Bellu

Un giorno la sinistra smise di occuparsi della cattiva giustizia. Non se ne conosce la data precisa, ma si può affermare con certezza che l’inizio di questa «distrazione» coincide col momento in cui l’uomo più ricco e potente d’Italia cominciò ad attaccare i giudici, e a cambiare le leggi, per difendere se stesso.
Prima dell’inizio dell’era berlusconiana la questione della difesa dei diritti dei più deboli era stabilmente all’ordine del giorno del dibattito della sinistra. Si par- lava senza imbarazzo di procure che occultavano le inchieste (i «Porti delle nebbie») o che si accanivano su figure deboli e marginali per distogliere l’attenzione dalle responsabilità degli apparati dello Stato nelle stragi (il «caso Valpreda»). Poi tutto (o quasi) tacque.
Abbiamo dedicato il prossimo numero di left (in edicola domani con l’Unità) a questo tabù. Ne abbiamo parlato con giuristi come Luigi Ferrajoli, con storici come Salvatore Lupo. Nell’editoriale di apertura il giudice Alberto Cisterna chiarisce un aspetto cruciale della questione. E cioè che a questo silenzio della sinistra si è accompagnata, da parte della politica, di tutta la politica, la progressiva rinuncia all’esercizio della sua funzione di controllo, per esempio attraverso le authority. È una questione complessa e delicata. Ma proprio per questa ragione è opportuno cominciare ad affrontarla. Perché se il «tabù-giustizia» è stato uno dei più nocivi tra gli «effetti collaterali» del berlusconismo, romperlo è una delle condizioni indispensabili per tornare a essere un Paese normale. E per chiudere definitivamente col berlusconismo.
Uno dei servizi è dedicato all’autogoverno dei giudici e a specifiche vicende che – nell’assegnazione degli incarichi direttivi, nella elezione dei membri del Csm e dell’Associazione nazionale magistrati – richiamano modi e metodi della cosiddetta «vecchia politica». Perché il silenzio, l’attribuzione di una sorta di delega illimitata, ha fatto male anche ai giudici e ai loro «partiti interni». Gli unici a essere sopravvissuti al passaggio tra la prima e la seconda Repubblica.
Un problema di difesa e di riconoscimento del merito esiste anche tra i magistrati. Le «logiche correntizie» sono spes- so decisive per la scelta di capi di uffici delicatissimi. Col risultato paradossale che così come la politica delega alla giurisdizione scelte che non è in grado di compiere (dalla riforma elettorale a quella della legge 40), gli stessi giudici finiscono con l’affidare ad altri giudici (quelli del Tar) la risoluzione dei conflitti interni generati da un uso improprio dei poteri di autogoverno.
In definitiva, parliamone. Col senso di responsabilità dovuto a una materia che, contemporaneamente, attiene al buon funzionamento della democrazia e alla vita quotidiana di tutti noi. Parliamone in modo semplice e chiaro. Come la vignetta-editoriale di Sergio Staino (che non anticipiamo qua per non guastare la sorpresa) suggerisce, in apertura del numero, con amara e feroce ironia.

L’Unità 11.04.14