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"Il rispetto della Costituzione e il cappotto del Presidente", di Michele Ainis

La legge sul legittimo impedimento può piacere o non piacere. Diciamolo senza troppi giri di parole: a noi non piace. Il bilanciamento fra le esigenze processuali e quelle di governo avrebbe potuto trovare un equilibrio più soddisfacente. Lo spazio del sindacato giudiziario in ordine alla richiesta di rinvio dell’udienza penale, depositata dalla presidenza del Consiglio, si presta a vari malintesi. Infine sarebbe stato meglio, molto meglio, un esame parlamentare approfondito, senza la camicia di forza del voto di fiducia.

Può darsi che in futuro questa legge suoni antipatica pure alla Consulta, ma non è questo il punto. Oggi la questione investe il ruolo del capo dello stato, le critiche o gli applausi per averla promulgata. D’altronde le due tifoserie sono entrate già in azione e non smetteranno troppo presto. E allora diciamolo di nuovo senza infingimenti: sbagliate bersaglio, c’è errore di mira. Non tanto perché il presidente sia immune da contestazioni; ci mancherebbe, in democrazia non esistono santini. Quanto perché non è di Napolitano la paternità delle scelte timbrate nella legge. Altrimenti la promulgazione sarebbe tal quale la sanzione regia, una terza approvazione dopo quella delle Camere.

Naturalmente, c’è sempre un’obiezione all’obiezione. Funziona così: sappiamo che le decisioni spettano alla maggioranza di governo, però il capo dello stato rappresenta il supremo garante delle nostre istituzioni. Se dunque ha acceso il verde del semaforo sul legittimo impedimento, significa che non vi ha ravvisato profili d’incostituzionalità, o almeno non così evidenti. Da qui gli applausi (della maggioranza), nonché le critiche (di questa o quella minoranza). Da qui, in breve, l’uso del Colle come parapioggia, o al contrario come acchiappafulmini.

In questo atteggiamento, in quest’accalcarsi sotto il paletot del presidente c’è un errore prospettico, un abbaglio giuridico. Se infatti il capo dello stato fosse anche giudice circa la costituzionalità delle leggi sottoposte alla sua firma, allora delle due l’una. O le promulga, attestandone così la piena coerenza con la Costituzione; ma l’indomani la Consulta può smentirlo, e d’altronde le sentenze d’annullamento di leggi regolarmente promulgate si contano a decine l’anno. Oppure non le promulga, perché in contrasto con la Carta; ma se il Parlamento le riapprova senza cambiare un aggettivo (successe a Giovanni Leone nel 1975, quando rinviò la legge elettorale del Csm), il presidente sarà costretto a promulgare un atto normativo che ha dichiarato già incostituzionale. Nell’uno e nell’altro caso la sua autorità subirebbe una ferita, una diminuzione permanente.

Conviene allora dirlo con chiarezza: non la costituzionalità, bensì l’opportunità costituzionale è l’inchiostro con cui scrive il capo dello Stato. E infatti Napolitano non ha messo in campo la categoria della legittimità costituzionale, né quando ha rinviato la legge sul lavoro, né quando ha promulgato quella sul legittimo impedimento. Sicché la domanda giusta è un’altra: dobbiamo giudicare sommamente inopportuna la nuova disciplina di cui s’avvantaggiano il premier e tutti i suoi ministri? Napolitano avrebbe fatto bene a rispedirla al mittente, considerandola offensiva dei valori condivisi su cui gravita la nostra convivenza?

Se dimentichiamo le varie simpatie politiche e ci applichiamo a uno sforzo d’onestà intellettuale, la risposta è no. In primo luogo perché il «sereno svolgimento» delle funzioni di governo descrive un interesse pubblico, riconosciuto peraltro dalla stessa Consulta (sentenze 24/2004 e 262/2009). In secondo luogo perché questo interesse sussisteva già per i parlamentari (così, di nuovo, la Consulta: sentenze 225/2001 e 451/2005), nonché in capo ai ministri (Cassazione, sentenza 10.773/2004). In terzo luogo perché il legittimo impedimento sospende la prescrizione dei reati, ed è perciò più restrittivo anche rispetto all’immunità parlamentare configurata dal vecchio articolo 68 della Costituzione. In quarto luogo perché la nuova legge è a termine, sicché non vale per tutti i secoli a venire, ma al massimo per 18 mesi. In quinto luogo perché la doppia fiducia che ne ha strozzato la discussione in Parlamento, pur deprecabile, di per sé non basta: altrimenti, con 31 votazioni di fiducia fin qui collezionate dal governo Berlusconi, Napolitano avrebbe dovuto fare una razzia legislativa.

E c’è infine un aspetto che in futuro potrà rivelarsi decisivo. La legge parla di «legittimo» impedimento, non d’impedimento «assoluto». Significa che un’interpretazione conforme a Costituzione può recuperare spazio alla discrezionalità del giudice, permettendogli di sindacare le ragioni addotte dalla presidenza del Consiglio, ed eventualmente di respingerle. In questo senso, d’altronde, si è espresso già qualche giurista, nonché un esponente della maggioranza (Manlio Contento) durante l’iter di gestazione della legge. Poi, certo, chi ha scritto la nuova disciplina aveva tutt’altri scopi in mente. Ma pazienza, alla prossima occasione gli regaleremo una bella penna nuova.
Il Sole 24 Ore 08.04.10

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“L’anomalia e la Costituzione”, di Massimo Giannini

La diciannovesima legge ad personam proposta al Paese e imposta al Parlamento ha tagliato il traguardo. Con la firma del presidente della Repubblica al “legittimo impedimento”, il premier ha ottenuto ciò che cercava. Entra in vigore un nuovo scudo processuale, sotto il quale potrà ripararsi per il prossimo anno e mezzo dai pesanti processi che ancora pendono su di lui: il caso Mills (corruzione in atti giudiziari) e l’affare Mediatrade (appropriazione indebita e frode fiscale). Silvio Berlusconi, l’Unto del Signore, sarà ancora una volta un Intoccabile dalle Procure. Gli basterà “autocertificare” di volta in volta una giustificazione “istituzionale”, per poter essere esentato dalle udienze che lo riguardano. Vera o falsa che sia la scusa, poco importa: un consiglio dei ministri, un vertice con un ambasciatore straniero, un faccia a faccia con un sindaco. Nessuno potrà mai accertare se al posto dell’impegno ufficiale (com’è già accaduto) il Cavaliere non abbia invece rubricato in agenda una seduta di “fisioterapia” a domicilio o una festa danzante a Palazzo Grazioli. Il risultato finale non cambia: per un altro anno e mezzo un solo cittadino, e sempre lo stesso, continuerà ad essere meno uguale degli altri di fronte alla legge, come accade ormai dal giorno dell’epica “discesa in campo” del ’94.

C’è una prima valutazione da fare, ed è di natura costituzionale. E qui c’è solo da prendere atto e rispettare la decisione di Giorgio Napolitano. Senza esaltarla né criticarla. Con tutta evidenza, il presidente ha ritenuto che quel testo non fosse inficiato da manifesti vizi di costituzionalità, tali da precluderne la promulgazione o da richiederne un rinvio alle Camere per una nuova deliberazione (com’è invece accaduto la settimana scorsa per la legge delega sul lavoro). Anche in questo caso, come nel precedente, il Capo dello Stato ha fatto fino in fondo il suo dovere, esercitando i poteri che la Costituzione gli attribuisce. Ha esaminato il provvedimento, confrontandone i contenuti con i principi fissati dalla giurisprudenza della Consulta. Ha verificato l’esistenza di un effettivo, “apprezzabile interesse” (sancito dalla sentenza 24/2004 della Corte) ad assicurare “il sereno svolgimento di rilevanti funzioni” istituzionali, interesse che “può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali del diritto”. In nome di questo interesse, palesemente soggettivo ma evidentemente anche oggettivo, ha firmato la legge. Non avrà deciso a cuor leggero. E deve far riflettere il fatto che la firma sia arrivata ben 27 giorni dopo il via libera definitivo al Senato, e soli tre giorni prima della scadenza dei 30 che la Costituzione assegna al Capo dello Stato per promulgare le leggi. Per quel che vale, è l’indizio di un vaglio giuridico più complicato, e probabilmente anche più tormentato del solito.

Piaccia o no, Napolitano ha fatto la sua parte. Ora, come sempre succede in una democrazia liberale e in uno stato di diritto, il vero sindacato di costituzionalità” di questa nuova legge ad personam spetterà alla Consulta. Toccherà ai giudici della Corte, che sicuramente saranno investiti della questione, stabilire se il legittimo impedimento è o no compatibile con la nostra Carta fondamentale. Quale “valore” debba cioè pesare di più, nel bilanciamento tra l’interesse al “sereno svolgimento di rilevanti funzioni” e il princpio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. È già accaduto, in passato, che una legge tagliata su misura per gli interessi processuali del Cavaliere venisse promulgata dal Capo dello Stato, e poi bocciata dalla Consulta. Successe con il Lodo Schifani, firmato da Ciampi e bocciato dalla Corte con la sentenza 13/2004. È successo con il Lodo Alfano, firmato da Napolitano e respinto dalla Corte con la sentenza 262/2009. Potrebbe accadere anche con il legittimo impedimento. Anche se stavolta, l’ennesima “ghedinata” è stata congegnata meglio delle precedenti: sia perché si stabilisce testualmente che si tratta di “legge ponte”, sia perché, proprio in ragione di questa sua natura provvisoria, è espressamente previsto che resti in vigore solo 18 mesi. Dunque non è nemmeno chiaro se ci sarebbe il tempo e se avvesse senso giudicarla incostituzionale prima della sua naturale auto-decadenza. Vedremo.

C’è una seconda valutazione da fare, ed è di natura politica. E qui si può e si deve recuperare tutto intero lo spazio della critica. Paradossalmente, nei commenti del giorno dopo, questo ennesimo e brutale strappo alle regole sembra alimentare una doppia speranza. La prima è che, a questo punto, il premier cessi una volta per tutte la guerra atomica contro la magistratura, e che si possa realizzare davvero quel clima di “leale collaborazione tra autorità politica e giudiziaria” sul quale Napolitano ha insistito nella promulgazione della legge. La seconda è che, a questo punto, il premier cessi una volta per tutte la battaglia ideologica contro l’opposizione, e che si possa concretizzare davvero il retorico richiamo al “dialogo” sul quale si consuma da due anni questa legislatura. Il Cavaliere ha promesso entrambe le cose. Di nuovo: vedremo. La pessima esperienza di questi anni non convince, e il conflitto permanente di questi mesi non aiuta. Anche il presidente del Consiglio che stravinse le elezioni nella primavera del 2008 fece un discorso da “statista” in Parlamento, per chiedere la fiducia, e subito dopo celebrò con parole finalmente solenni il 25 aprile. Abbiamo visto, poi, quale inferno abbiano lastricato quelle buone, ma bugiarde intenzioni.

Nel frattempo Berlusconi, e con lui il suo governo e la sua maggioranza, portano l’enorme responsabilità di aver piegato ancora una volta l’interesse nazionale a un’esigenza personale. Di aver fatto coincidere, di nuovo, la biografia della nazione con l’agiografia di chi la governa. Questa paurosa mancanza di senso civico, questa pericolosa latenza di etica repubblicana, pesano e peseranno tutte intere sulle spalle del Cavaliere e di chi lo sostiene, in Parlamento e fuori. E nella deriva plebiscitaria che accompagna la sua ascesa verso il Quirinale, dove per il 2013 (o forse anche prima) lo candida ormai ufficialmente il ministro leghista Calderoli, si produrrà anche l’ultima, diabolica manipolazione genetica della nostra Carta fondamentale. La patologia di questo quasi ventennio, invece di essere risolta nella fisiologia democratica, verrà riconosciuta formalmente e fatta propria non solo dal Paese reale (attraverso il voto), ma anche dal Paese legale (attraverso le riforme). Questi diciotto mesi di vigenza del “legittimo impedimento”, infatti, oltre che a difendere Berlusconi dai procedimenti in corso, serviranno anche per “traslare” questo scudo processuale da legge ordinaria a legge di revisione costituzionale, secondo le procedure stabilite dall’articolo 138. Si compirà così il capolavoro finale: l’anomalia berlusconiana, piuttosto che essere normalizzata attraverso la sua progressiva neutralizzazione, sarà superata attraverso la sua definitiva costituzionalizzazione. Neanche l’Italia uscita dall’urna delle regionali merita un “sonno della ragione” così prolungato e così profondo.
La Repubblica 08.04.10

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