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“Ma le pensioni del futuro sono condannate a svalutarsi fino a un terzo dei salari”, di Luisa Grion

Il temuto tracollo della spesa per la previdenza non ci sarà, perché vivremo di più, lavoreremo di più, saremo più produttivi e perché un esercito di immigrati – ronde permettendo – pagherà i contributi anche per noi. Ma detto questi i figli staranno peggio dei padri: se vorranno far sì che il loro assegno sia più o meno riconducibile a quello dei loro vecchi dovranno rassegnarsi ad andare in pensione più tardi. E comunque sia, senza un sostanzioso aiuto dalla previdenza integrativa, le loro rendite saranno via via più povere. Intersecando le linee della demografia, del Pil, dell’occupazione e della durata e qualità del lavoro un corposo studio voluto ed elaborato dal Cnel e dal Cer ci racconta come sarà la nostra previdenza da ora al 2050.

Un lasso di tempo lungo durante il quale – visto il pieno passaggio che intanto si realizzerà fra sistema retributivo e contributivo – la tenuta dei conti dovrebbe restare salda: messa in rapporto con il Pil continuerà a crescere fino al 2010, ma poi finirà per l’assestarsi fra il 13,6 e il 14 per cento. Ciò sarà possibile non solo grazie al fatto che lavoreremo e produrremo di più (lo studio dimostra, tra l’altro, che a titolo di studio più alto corrisponde una vita più lunga), ma soprattutto perché l’assegno previdenziale sarà drammaticamente più basso se riferito all’ultimo stipendio percepito. E messo in rapporto con la media dei salari il suo valore andrà affievolendosi. Per esempio: tenendo conto del fatto che chi può avvalersi a pieno del sistema retributivo va oggi in pensione con il 67 per cento dello stipendio, chi lascerà il lavoro fra il 2020 e il 2030 avrà un assegno tarato sul 62 per cento dell’ultima retribuzione (considerando un lavoratore dipendente). Chi lo farà nel decennio successivo partirà da una base del 55 per cento, chi ancora lascerà il lavoro fra il 2040 e il 2050 solo del 48. Ciò vorrà dire – per poter godere dello stesso livello di partenza dei padri – dovrà rispettivamente lavorare un anno in più, tre anni in più e cinque anni e mezzo in più (che si aggiungerebbero al 61 anni considerati età minima pensionabile). Non solo: visto che l’assegno e indicizzato alle pensioni, ma non al Pil diventeremo via via più poveri. Chi andrà in pensione nel 2024 (più o meno i quasi cinquantenni di oggi) potrà contare su un assegno che – rapportato alla media dei salari – varrà il 57 per cento. Ma vent’anni dopo la sua rendita corrisponderà solo al 37 per cento di quello che sarà il salario medio. Niente di inatteso in realtà: «Questo quadro nasce dalle riforme Amato e Dini» spiega Carlo Mazzaferro, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Bologna. Certo i giovani di adesso cominceranno a lavorare più tardi e vivranno di più, ma la loro pensione sarà a serio rischio povertà, integrazioni a parte.

La Repubblica, 6 maggio 2009