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“Una sceneggiata dove niente è come appare”, di Francesco La Licata

Messaggi da vero boss dietro le dichiarazioni ufficiali. Il copione è stato rispettato. Ogni attore ha recitato bene la propria parte. Tanto che tutti – protagonisti e comparse – adesso sono nelle condizioni di potersi dichiarare soddisfatti.
L’imputato, Marcello Dell’Utri, esce dall’aula della Corte d’Appello esibendo come trofeo vittorioso Filippo Graviano che scandisce: «Non conosco il senatore». Lo stesso boss di Brancaccio può vantare di aver, finalmente, spiegato la propria posizione di mafioso non pentito che da qualche tempo ha preso le distanze dal suo passato senza, per questo, fare il salto verso la collaborazione. Ed anche il fratello, Giuseppe, può dire di aver raggiunto l’obiettivo di «mettere in chiaro» che ciò che gli sta più a cuore è di risolvere il problema della sua condizione di detenuto ad un «41 bis» duro, durissimo, tanto duro da costringerlo in condizioni di salute così precarie da «non consentirgli di sopportare un interrogatorio».

E per questo motivo, abbondantemente spiegato in una lettera alla Corte (che il Presidente non ha voluto leggere in aula), «per il momento» si avvale della facoltà di non rispondere. Ma, ha ripetuto più volte, «per il momento». Esattamente come aveva fatto coi magistrati che erano andati a sentirlo in carcere. Com’era ampiamente preventivato, dunque, non c’è stato il colpo di scena. Non c’è stata conferma alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che coinvolgono Dell’Utri e il Presidente del Consiglio nel groviglio istituzionale delle indagini sulle stragi e sulla cosiddetta «trattativa». Ma davvero qualcuno pensava che i Graviano, mafiosi ancora saldamente ancorati alla loro «ideologia», si sarebbero consegnati alla magistratra, così, nel corso di un processo pubblico, senza nessun accordo preventivo e senza un «contratto»?

Che Filippo avrebbe proseguito nella sua «riflessione» (giudiziariamente innocua) era quasi scontato. Perché il maggiore dei Graviano, questo «percorso di ricerca del bene e della legalità», dice di inseguirlo da almeno dieci anni. Da quando «inviai una lettera alla Procura di Palermo, esternando queste mie convinzioni». Nessuno «ha mai risposto». Il boss non sa esplicitare bene in che cosa consista questo «percorso». Se deve esemplificare racconta dell’aiuto offerto ad altri detenuti per esempio «nella spiegazione della matematica che è una mia passione», oppure del «rapporto corretto nei confronti degli agenti di custodia».

Eppure la sua «storia recente» offre qualche spunto di revisione che restituisce un uomo diverso, rispetto al clichè del boss ricco e crudele. Filippo e Giuseppe sono divenuti padri (chi dice per inseminazione in provetta, chi per contatto diretto con le mogli durante la celebrazione di un processo in Calabria) mentre erano già detenuti. La volontà del fratello grande era che il figlio nascesse lontano dalla Sicila e rimanesse distante da Palermo per sottrarlo all’ambiente mafioso. Ciò non si è verificato e Filippo ne attribuisce – così si intuisce dalle sue stesse dichiarazioni – parte di responsabilità alla moglie che è tornata a vivere a Palermo. Un attrito tanto importante da aver seriamento compromesso il legame matrimoniale. Diverso l’atteggiamento di Giuseppe, che non sembra aver battuto ciglio rispetto al «ritorno a casa» della propria moglie e del figlioletto coetaneo del cugino.

Se si dovesse proprio descrivere, rispettando i canoni mafiosi, i diversi atteggiamenti dei fratelli, si dovrebbe concludere che Filippo è lontano dalla possibilità di una collaborazione coi magistrati perchè riconosce di aver «un passato da farsi perdonare» (l’appartenenza a Cosa nostra), ma rifiuta l’accusa di stragismo e di violenza omicida. E ieri, in qualche modo, ha sottolineato la sua «lontananza», spingendosi fino a dichiarare che «le mie decisioni non sono appannaggio né del sig. Spatuzza, né di mio fratello». Una presa di distanza netta.

Ecco, tra i due, forse, chi ha qualcosa da contrattare è Giuseppe che, abilmente, ieri ha introdotto anche uno dei temi cari ai «trattativisti» e cioè il 41 bis e il carcere duro, sospendendo ogni decisione a quando starà meglio fisicamente. Cioè quando avrà una condizione carceraria migliore. Com’è evidente tutto ciò poco ha a che fare con il destino del sen. Dell’Utri che non dipende né da Gaspare Spatuzza né dai Graviano, ma dall’esito negativo del primo grado. Nei processi di mafia, di solito, non si citano neppure le fonti dei collaboratori, «se si tratta di affiliati non pentiti», perchè – dice la giurispudenza – non potrebbero che negare. L’aspettativa era, dunque, prevalentemente mediatica.
La Stampa 12.12.09