politica italiana

"La resa dei conti", di Marcello Sorgi

C’è un’evidente vena di follia nella rottura annunciata ieri dopo un tempestoso incontro di due ore tra Fini e Berlusconi. Benché il clima tra i due cofondatori del Pdl si fosse deteriorato da tempo, a nessuno sembrava possibile che alla fine si spaccasse davvero il partito appena uscito vincitore dall’ultima, difficile, tornata elettorale (e in tutte quelle celebrate negli ultimi due anni). Invece è successo. La frattura è drammatica, piena di risentimenti e accompagnata da una caccia all’uomo che procede con argomenti inconfessabili, perché Fini ha annunciato di voler costituire suoi gruppi parlamentari e i berlusconiani nella notte hanno avvertito i transfughi, a uno a uno, che se lasciano il partito si ritroveranno presto fuori dal Parlamento, nel caso, per niente improbabile, di uno scioglimento.

Tra le tante ragioni di impazzimento, ce ne sono due evidenti. La prima è lo stato dei rapporti personali tra Fini e Berlusconi e tra Berlusconi e Bossi.

Da tempo il presidente della Camera si ritiene emarginato dall’asse tra il premier e il Senatùr e non ha tollerato che il progetto di riforma elettorale concordato tra i due venisse annunciato dopo un’allegra serata di canti e barzellette, per festeggiare il neo-governatore leghista del Piemonte Cota, nella villa berlusconiana di Arcore. Alla festa partecipava anche il ministro della Difesa La Russa, coordinatore, in rappresentanza dell’ex-partito di Fini, e membro del triumvirato che regge il Pdl. Ma il presidente della Camera, questo è il punto, si sente tradito, e non più garantito, dai suoi ex-colonnelli, divenuti troppo amici del Cavaliere. E vorrebbe sostituirli con suoi nuovi fedelissimi, a cominciare dal vicecapogruppo alla Camera Bocchino, controllato illegittimamente – e misteriosamente, par di capire, secondo Fini – dai servizi segreti, non si sa per ordine di chi.

La seconda ragione è politica e Berlusconi ne porta intera la responsabilità. Inaugurando, all’indomani delle elezioni, la stagione delle riforme a cui dedicare la seconda parte della legislatura, il presidente del consiglio, non del tutto consapevolmente, è come se avesse suonato il «liberi tutti». Le riforme infatti, soprattutto quelle costituzionali, richiedono un confronto largo, senza pregiudiziali, e maggioranze qualificate in Parlamento: per evitare, com’era già accaduto nel 2006 alla fine della prima legislatura di governo del centrodestra, che la Costituzione cambiata da una sola parte politica sia poi bocciata dagli elettori nel successivo referendum. Ma Berlusconi, di concordare con l’opposizione, tutta o in parte, il suo progetto riformatore, non ha alcuna voglia. E men che meno di rischiare di finire in minoranza, perché magari Fini, Bersani, e lo stesso Bossi si mettono d’accordo ai suoi danni. Di qui lo stallo in cui è precipitata, dopo i primi roboanti annunci, la Grande Riforma, e il pullulare di ogni tipo di trasversalismo e correntismo, perché in un campo che è stato dichiarato aperto tutti giocano con e contro tutti.

Ieri notte nelle file dei due eserciti regnava la più assoluta confusione. A parte la dichiarazione del presidente del Senato Schifani, che, irritando il Quirinale, ha ricordato a tutti che se una maggioranza si spacca e non è più tale si va diritti alle elezioni anticipate, nessuno era in grado di dire con certezza cosa succederà. Fini e i suoi non minacciano crisi di governo, ma è difficile che Berlusconi possa accettare il solito rappattumamento, pur di tirare avanti. Molto dipenderà dai numeri dei nuovi gruppi che il presidente della Camera sta cercando di formare. Se davvero arriveranno a cinquanta deputati e diciotto senatori, tanto per dire due cifre che venivano fatte circolare, il governo, pur formalmente in carica, sarebbe praticamente paralizzato, e l’intenzione di Berlusconi di far saltare il tavolo e andare a nuove elezioni ne uscirebbe rafforzata. Nell’enorme edificio del partito del premier, ormai è chiaro, s’è aperta una crepa. E incuranti degli elettori, che li hanno votati per farli governare, i due cofondatori, al momento, lavorano per allargarla
La Stampa 16.04.10

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“Consenso senza politica”, di MASSIMO GIANNINI

A poco più di un anno dalla sua fondazione, e a poco meno di un mese da un complicato successo elettorale sbandierato come un trionfo dell’Armata Invincibile, il Partito del Popolo della Libertà vive la sua crisi più acuta, e forse addirittura irreversibile. È ancora presto per trarre conclusioni politiche definitive dal vertice di ieri tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera. Da una parte, Berlusconi è uomo dalle infinite risorse. In tutti i sensi.

Soprattutto nelle condizioni più critiche, sfodera il meglio (e spesso anche il peggio) di sé. È un negoziatore a tutto campo: tra minacce mediatiche a mezzo stampa o tv e campagne acquisti a suon di poltrone o prebende, si è quasi sempre dimostrato capace di “regolare” da par suo i conflitti interni ed esterni alla sua maggioranza. Dall’altra parte, Fini è comunque uomo della destra italiana, e sbaglia o si illude chi lo sospetta in transito verso un “altrove” che, per adesso e fino a prova contraria, esiste solo nella fantasia di qualche sognatore.

Ma nel teso faccia a faccia tra i due sembra essersi consumato qualcosa di molto più profondo di un semplice strappo tattico. Siamo al confine di una vera e propria rottura politica. O forse, salvo sorprese, quel confine è stato già valicato. Si capirà meglio nelle prossime ore. Ma intanto quello che è già chiaro è il “cambio di fase”, per la maggioranza e dunque per il governo. Il confronto-scontro tra il fondatore e il co-fondatore del Pdl sancisce ciò che era evidente fin dalla nascita della loro “creatura”. Una visione inconciliabile della politica: populista e plebiscitaria per Berlusconi, pluralista e legalitaria per Fini. Un’idea incompatibile della destra: radicale e tecnicamente sediziosa per Berlusconi, laica e costituzionalmente repubblicana per Fini. Questa irriducibile distanza tra i due, emersa con assoluta chiarezza al congresso fondativo del partito, non si è mai colmata in questi lunghi mesi di “coabitazione”.

Anzi, si è estesa fino al limite più estremo. E non poteva che essere così. Dalle regionali, al di là della propaganda di regime, è uscita una coalizione totalmente squilibrata, nella quale il Pdl perde oltre due milioni di voti mentre la Lega ne ha persi “solo” 177 mila ma ha blindato il Nord. Bossi è passato immediatamente all’incasso: si è intestato la vittoria, ha preso in mano il timone delle riforme, ha prenotato la premiership per il 2013 ed ha annunciato la conquista delle banche del Nord. In pochi giorni, il Senatur ha spostato sul Carroccio l’intero asse dell’alleanza. Per Fini, che prima delle elezioni aveva ripetuto al Cavaliere “stai attento a non trasformare il Pdl in una fotocopia della Lega”, questo non poteva essere accettabile. Per ragioni politiche: lui è il co-fondatore, e vuole legittimamente pesare nelle scelte del partito di maggioranza. Per ragioni identitarie: lui è la destra nazionale, e non può tollerare che le sue radici vengano divelte tra la secessione nordista dei padani agguerriti la leghizzazione sudista dei forzitalioti pentiti. E per ragioni istituzionali: lui è la terza carica dello Stato, può svolgere un ruolo prezioso per il premier sul cammino delle riforme, e non può invece ritrovarsi fuori dal tavolo della trattativa, scalzato da un Calderoli che senza avvertire nessuno sale al Quirinale con una sua bozza di nuova Costituzione.

Era chiaro che questa corda, tesa fino al suo massimo, doveva prima o poi rompersi. Ora ci siamo. Fini è pronto a creare il suo gruppo parlamentare. Meno di un nuovo partito, ma molto più che una fondazione o una corrente. Se Berlusconi non riuscisse a ritrovare l’accordo con il suo alleato, e se l’autonomizzazione finiana andasse in porto, il Pdl sarebbe un’altra cosa, anche rispetto all'”amalgama mal riuscito” che abbiamo conosciuto finora. Nel centrodestra berlusconiano non ha mai avuto diritto di cittadinanza una concezione “altra”, rispetto a quella autoritaria e cesarista del Cavaliere. Ora questa “alterità”, per la prima volta, trova un luogo fisico, e politico, nel quale esprimersi. Con quali effetti destabilizzanti, per la maggioranza e per il governo, è facile immaginare. Anche al di là della portata numerica della “divisione” finiana in Parlamento.

Questo è il paesaggio italiano di metà legislatura. Questo è il travagliato “mid-term” berlusconiano, quello di un sovrano che regna ma non governa. Si verifica quanto avevamo più volte previsto: il grande “partito di massa dei moderati” non è mai nato. Quel progetto, per stare in piedi, aveva bisogno di una politica. E Berlusconi una vera politica non l’ha mai costruita. Ha assemblato schegge di partito, tenendole insieme con il cemento degli interessi. Questo è il risultato. Altro che “la nave va”, secondo il vecchio adagio di Craxi. Altro che tre anni di navigazione con il vento in poppa, libero dalle tempeste elettorali e sulla rotta delle grandi riforme istituzionali, come i berluscones avevano gridato con bugiarda prosopopea dopo le regionali del 28 marzo. Oggi, a meno di tre settimane da quel posticcio trionfo, persino il presidente del Senato Schifani, da sempre più realista del re, deve avvertire la corte che “quando una maggioranza si divide non resta che tornare alle urne”. Magari non si arriverà alle elezioni anticipate. Ma la “corazzata” di Berlusconi fa acqua da tutte le parti, e naviga a vista in mezzo agli scogli. Ha il consenso, ma non ha più una politica. Solo un Pd irresoluto e irresponsabile poteva pensare di offrirgli una sponda sulle riforme, rimettendo persino in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale. Non si capisce cosa ci sia di così “dolce” a naufragare in questo mare.
La Repubblica 16.04.10