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«Il modello emiliano, città aperte e sicure», di Graziano Delrio*

Nell’intervista dell’Unità che chiede, sul post voto, «da dove cominciare?», Nadia Urbinati risponde «dall’Emilia». Anche io dico: cominciare dall’Emilia e dalle sue città. Ma non voglio, dopo cinque anni che sento parlare di Berlusconi, passare cinque anni a sentir parlare di Lega. Io dico cominciamo dall’Emilia, perché l’Emilia può ancora proporre un modello competitivo, economico, sociale, politico che può essere di riferimento per una riflessione che riguarda tutto il Paese.

Un modello basato su poche, tre-quattro, parole chiave: capitale sociale, conoscenza, cura e, infine, comunità. Un abc da ricominciare ad articolare, anche come forza politica, tanto più se forza di governo.

Un’evoluzione europea del modello emiliano è possibile ed è già in atto. Un modello concreto e di valori, che parte dalle città, dalle persone, che guarda all’Europa e al mondo. Città aperte, dinamiche, e non chiuse sulla paura, città la cui forza è il «noi», la cura delle persone e del territorio, la responsabilità comune per uno sviluppo nuovo, l’educazione come cardine della cittadinanza. Per noi, essere emiliani, di questa parte della Pianura, vuol dire questo.

Questa evoluzione del modello emiliano che guarda all’Europa (diventare europee per le città italiane continua a essere un miraggio) ci chiede di prendere posizione e di compiere delle scelte.

Capitale sociale. È vero: il neo liberismo ha fatto male anche a noi e ha provocato l’allentamento di quella tensione, di quel patto sociale che vedeva amministrazioni pubbliche, imprese e reti sociali lavorare insieme con ruoli precisi.

Se il patto è allentato, il capitale sociale c’è e va rimesso insieme. Il patto va rifondato e in modo nuovo tra enti pubblici, imprese, reti sociali, con un più di civismo: mettere al centro l’idea di città, il suo futuro, la comunità, condividere strategie e responsabilità su welfare, sviluppo e territorio. All’ente pubblico spetta un ruolo forte, non solo e non sempre come gestore di servizi, bensì come agenzia di sviluppo, come integratore per fare funzionare l’economia, come garante dell’efficienza.

Conoscenza. Il «saper fare» del nostro sistema economico e il saper fare insieme, che qui sono stati di casa, alla prova del mercato globale e della crisi, hanno bisogno di innovazioni radicali. Le tradizionali filiere che hanno reso forti questi territori evolvono grazie a decisive componenti di ricerca e di conoscenza, così come accade in altre parti d’Italia: la meccanica si fa meccatronica o robotica, l’edilizia va verso le nuove energie e i nuovi materiali, l’agricoltura verso la slow economy.

Se è decisiva, come noi crediamo, la matrice della conoscenza per uscire dalla crisi, conquistare nuovo mercato e diffuso benessere, occorrerà chiederci, come istituzioni e come forze politiche di riferimento del Paese, come contribuire.

Mentre la nostra nazione, grazie alle scelte del governo, è agli ultimi posti al mondo per investimento in ricerca, la Regione Emilia Romagna ha promosso un tecnopolo in ogni provincia. Reggio Emilia sta cercando di fare confluire risorse pubbliche locali e private in un unico progetto di Parco della conoscenza, innovazione e creatività nelle ex Officine Reggiane, a cui possano fare riferimento le imprese e l’università, i centri di ricerca. Vogliamo così accompagnare le nuove economie, le nostre aziende, e dare una risposta lungimirante alla crisi.

Cura del territorio. In un nuovo modello di sviluppo nuovo, è chiaro che il territorio va inquadrato come risorsa finita, da rigenerare, riusare, non più su cui fare cassa, speculare all’infinito. Le nostre città debbono invertire la rotta e virare verso la riconnessione delle comunità periferiche, la centralità delle piazze e degli spazi pubblici. Dopo lo sprawl urbano e la privatizzazione degli spazi degli anni Novanta, è questa la direzione da assumere per il nostro Paese, resistendo anche dove il nostro governo procede invece per condoni, 20% aggiuntivi e coste da svendere.

Comunità. La comunità – come rete salda ma aperta di relazioni – è quindi il metro di misura da rispettare, sia nella cura del territorio, sia nella cura delle persone, ovvero nel welfare. Il nostro sistema pubblico dei servizi, che nella sua funzione redistribuitiva, riparatrice e di riequilibrio della disuguaglianza era centrale nel modello emiliano di un tempo, si è modificato in questi anni accompagnando una società sempre più frammentata e diversificata, e si è fatto, faticosamente con il calo di risorse, un sistema ancora più allargato, welfare di comunità. Un welfare che tenta di metter insieme i servizi sociali, le reti sociali sul territorio, i quartieri, i medici di base, ma anche i vicini, i centri sociali nell’assunzione in carico dei casi.

In questo modo l’ente pubblico non è più, appunto, erogatore di servizi, ma regista, coordinatore, attivatore di risposte possibili. E nel patto sociale da rifondare, questa responsabilità collettiva dell’esser comunità va assunta da tutti gli attori.
Dentro questa etica di comunità – aggiungo – ci sta anche la relazione con le famiglie di lavoratori che stanno perdendo il posto, che siano o no immigrati. Mentre attiene alla sfera dell’ordine pubblico, ad azioni del governo, garantire l’esecuzione di decreti di espulsione per reati.
La cura, il prendersi cura: delle città, del territorio, delle relazioni, la cura delle persone. A noi piace questa parola. Ed è ormai dimostrato come la comunità, la cura, il benessere sociale, siano fattori determinanti anche per il benessere economico. Le nostre scuole dell’infanzia, dove il bambino è prima di tutto un cittadino, lo sperimentano tutti i giorni, in tutto il mondo: senza cura e senza comunità, l’approccio reggiano (o emiliano) non funziona.

Ritorniamo a pronunciare questa parola: una comunità. Pronunciarla con orgoglio, senza paura. Qui c’è l’abc della Politica, a Reggio Emilia la pensiamo così.

*Sindaco di Reggio Emilia

L’Unità 18.04.10