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"La Germania non parli solo tedesco", di Piero Fassino

Caro direttore,
«In un’Europa senza leader, la Germania è l’unica a esercitare una leadership: e, dunque, non si può che accettarne le condizioni». Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 28 aprile) con esercizio di crudo realismo dice certamente una scomoda verità, che tuttavia non è priva di conseguenze.
A preoccupare non è il richiamo duro e severo della Merkel perché ogni Paese rispetti puntigliosamente le regole che presiedono alla stabilità dell’euro. Tutti, infatti, siamo consapevoli di quanto sia necessario evitare che la moneta europea sia travolta dalla bufera che da mesi investe le economie e i mercati finanziari.

Né è motivo di stupore la fermezza con cui Berlino chiede ad Atene l’adozione di provvedimenti strutturali drastici e incisivi, onde evitare che l’aiuto prestato dall’Europa sia vano. Sollecitazione più che fondata, visto che al severo piano di austerità proposto coraggiosamente dal primo ministro greco Papandreou si sono contrapposti vaste proteste popolari e uno sciopero generale il 5 maggio.

Quel che colpisce sono gli argomenti offerti all’opinione pubblica tedesca e soprattutto la traduzione popolare che se ne è data: «Non saremo noi tedeschi a pagare i debiti e le bugie dei greci, che – come i portoghesi, gli spagnoli, gli italiani – hanno il vizio levantino di lavorare poco e spendere troppo». Basta scorrere i titoli e gli articoli di gran parte della stampa tedesca – in testa la popolare Bild, più di 5 milioni di copie giornaliere – per rendersi conto di quanto la vicenda greca faccia riemergere vecchi pregiudizi, dannosi stereotipi e stolidi luoghi comuni.

Insomma: quel che colpisce nell’atteggiamento tedesco è il ripiegamento, culturale prima ancora che politico, su una concezione miope e velleitaria dell’interesse nazionale. E se è assolutamente vero che l’integrazione europea non fa venire meno l’esistenza e lo spessore degli interessi nazionali, è altrettanto vero che l’Ue è stata pensata e voluta per collocare quegli interessi in un orizzonte più ampio, con la consapevolezza che il comune destino delle nazioni europee richiede che a problemi comuni si diano risposte comuni.

Peraltro è curioso come in Germania governo e opinione pubblica abbiano dimenticato che l’unificazione tedesca si poté realizzare grazie a una forte solidarietà – non solo politica, anche finanziaria – dell’intera Europa, che accettò la forzosa parità 1 a 1 tra marco occidentale e marco orientale e assecondò la politica di più alti tassi di interesse praticata dal Tesoro tedesco per raccogliere le risorse necessarie all’enorme sforzo di integrazione della ex Ddr. Politiche che ebbero non piccola incidenza sulla finanza pubblica degli altri Paesi europei e sui loro deficit.

Ma a parte questa considerazione, davvero le autorità tedesche pensano che la stabilità dell’euro e del mercato unico si difenda abbandonando al proprio destino i Paesi in difficoltà, oggi la Grecia e magari domani il Portogallo o la Spagna? Tanto più se si considera che lo sforzo richiesto alla Germania a favore della Grecia – un prestito di 8,4 milioni di euro – è di dimensioni certo non insostenibili per la forza della principale economia del continente.

Per questo non può non allarmare che a Berlino ci si arrocchi nella convinzione che dalla crisi ci si possa difendere meglio da soli o in pochi. E’ quel rischio di «rinazionalizzazione dell’Europa» di cui abbiamo avuto molti segni in questi anni: il cammino lungo e sfibrante del Trattato di Lisbona; il netto prevalere nella gestione della crisi della dimensione intergovernativa sulla dimensione comunitaria, plasticamente evidenziato dalla sostanziale marginalità della Commissione a vantaggio della centralità del Consiglio Eurozona e dell’Ecofin; e lo stesso piano di salvataggio ipotizzato per la Grecia, in cui l’Unione Europea è semplicemente la cornice di un intervento del Fondo Monetario Internazionale sostenuto da prestiti bilaterali di singoli Stati europei.

Peraltro, che in Europa tiri una brutta aria per l’integrazione europea ce lo hanno detto gli esiti elettorali che, negli ultimi anni, hanno visto in ogni Paese del continente crescere i consensi per movimenti e partiti antieuropei e nazionalisti (e spesso xenofobi). Ultimo esempio i 48 (!) seggi conquistati nelle elezioni ungheresi di domenica scorsa dal movimento populista Jobbik.

La Stampa 30.04.10