attualità, politica italiana

"La fine di un mondo", di Aldo Schiavone

Un vuoto di governo di proporzioni mai viste, e un dissesto sociale che rischia di andare da un momento all´altro fuori controllo. La crisi finale del berlusconismo – annunciata da tempo, ma ora precipitata con un´accelerazione imprevedibile – presenta al Paese un conto difficile da fronteggiare, con risvolti persino drammatici.
Non lasciamoci ingannare dalla farsa e dal fango: le volgarità e le bassezze dell´estate. Con il voto dell´altro giorno alla Camera, e con l´imminente nascita del nuovo partito di Fini, si sta muovendo qualcosa di duro e di serio, che tocca forze, interessi, rappresentazioni, che attraversano le nostre vite, e condizionano il nostro futuro.
Si è chiusa una fase della storia d´Italia: quella iniziata fra il ‘93 e il ‘94, con l´avventura politica di Silvio Berlusconi. Diciassette anni: praticamente una generazione cresciuta sotto il segno di una “macchina politica” che avrebbe dovuto cambiare la nostra società, e che ora non sembra avere altro scopo che di proteggere il destino personale del suo costruttore. Il ciclo si chiude esattamente e spietatamente dov´era cominciato: dai rapporti difficili – per non dire impossibili – del Presidente del Consiglio con i giudici e la giustizia.
Finisce un mondo: politico e ideologico. Politico, innanzitutto. Berlusconi aveva creduto di poter riunificare la destra italiana mescolando tradizioni e culture, bisogni e visioni del mondo in un nuovo amalgama, ispirato a un´interpretazione unilaterale e semplicistica della nuova modernità italiana – quella indotta dalla rivoluzione tecnologica postindustriale – e da un´idea impoverita fino alla scarnificazione della democrazia: con le istituzioni della rappresentanza (e innanzitutto quel Parlamento che lo mette ogni volta a disagio, perché non ne capisce il senso) svuotate in nome di un populismo mediatico chiuso intorno alla sola celebrazione del suo leader carismatico. Questo disegno gli si è spezzato fra le mani, proprio nel momento in cui sembrava aver colto il suo maggior successo elettorale. Perché la verità – nuda e cruda – è questa: Berlusconi non sa governare. Non sa tener conto di situazioni complesse, se non provando a ridurle a se stesso. Sa fare solo campagne elettorali – che è cosa ben diversa. E l´incapacità dimostrata in questi due anni a tener insieme la sua maggioranza – che non chiedeva altro se non di essere diretta con un po´ di saggezza, di disinteresse e di passione – ha dell´incredibile. Negli ultimi mesi il premier ha praticamente smesso di governare – tutto nelle mani del silenzioso Tremonti – e i conclamati successi in politica estera non sono che aria fritta nel provincialismo: basta mettere il naso fuori d´Italia per rendersi conto che mai negli ultimi decenni abbiamo contato così poco.
Insieme al fallimento politico, si consuma anche la dissoluzione ideologica. Berlusconi non aveva inventato niente: ma aveva saputo offrire all´Italia uno specchio magico (in parte coincidente con le sue televisioni, in parte con la sua stessa persona: ma c´era dentro anche qualcosa di più profondo), in cui l´Italia degli anni novanta potesse riflettersi e riconoscersi. Individualismo acquisitivo deregolato e dirompente: consumate, arricchitevi, e al diavolo lo Stato – per il resto basto io. Ebbene, questo specchio si è rotto, e da un pezzo. Non a caso, è da anni che Berlusconi non riesce più davvero a parlare al Paese. La crisi ha cambiato il nostro paesaggio interiore più di quanto non si fosse previsto. C´è bisogno d´altro: di più idee, di più pensiero, di nuove strategie: lo stantio liberalismo che il presidente del Consiglio continua a proporre è inservibile di fronte ai problemi che abbiamo innanzi. Se oggi egli fosse soltanto un imprenditore, e dovesse partire da zero, con la cultura che si ritrova, dubito che andrebbe lontano.
Nella notte del berlusconismo arranca un Paese in larga parte stremato. Il logoramento sociale dell´Italia è in effetti impressionante. Compromessi quasi tutti i legami che tengono insieme sia le regioni, sia le classi. Degradato quasi ogni spazio pubblico – fisico o culturale. L´occupazione giovanile ai minimi europei. Eroso fino all´osso quel che resta del lavoro operaio, abbandonato a se stesso – senza regole e quasi senza protezione – il nuovo lavoro ad alta densità di conoscenza. Un prelievo fiscale sempre più iniquo, che penalizza quasi solo i più deboli. Nessun nuovo investimento sulle grandi infrastrutture tecnologiche, sulla scuola, sulla ricerca, mentre i nostri rivali europei dirottano su questi settori risorse enormi.
Ma queste due emergenze – quella politica e quella sociale – non sono disgiunte. È anzi la loro connessione che determina la gravità del momento. E non è un caso se il partito che più sembra guadagnare da questa situazione sia quello di Bossi, che alimenta il suo carattere qualunquistico-popolare proprio del disfacimento politico e del dissesto sociale.
La democrazia non poggia sul vuoto. Presuppone la tenuta del corpo in cui vive: la sua coesione di fondo, la presenza di un tessuto connettivo in grado di tenere unite le sue parti e le sue diversità. Ebbene, io oggi mi chiedo se una delle conseguenze più catastrofiche del berlusconismo non sia proprio questo: che un pezzo consistente dei nostri gruppi dirigenti – non solo politici – abbia smesso di pensare all´Italia come un insieme, come un tutto, e stia coltivando l´idea di una secessione silenziosa e di fatto fra due società: una che affonda nel buio delle sue paure, dei suoi rancori e della sua nuova povertà; e una che si salva, perché è riuscita – ai danni dell´altra – ad agganciare il mondo e le sue sfide. È un´idea che fa paura: ma è qui – a poter pensare perfino questo – che ci hanno portato.

La Repubblica 01.10.10