attualità, politica italiana

"La guerra e i veri obiettivi", di Vittorio Emanuele Parisi

Il 2010 si va profilando come l’anno più luttuoso per la coalizione multinazionale da quando la guerra afghana è cominciata. E a questa tendenza generale non sfugge purtroppo neppure il contingente italiano.
Il prezzo da pagare si fa sempre più alto, al punto che dal presidente Obama al premier Cameron al ministro della Difesa La Russa, tutte le autorità governative si affannano a proclamare il 2011 come l’anno in cui terminerà lo sforzo di Isaf. Quasi volessero rassicurare l’opinione pubblica che si tratta di stringere i denti ancora per un anno e poi l’incubo, con il suo stillicidio di morti, cesserà o perlomeno smetterà di riguardarci.

Lasciateci dire che tutto questo è profondamente sbagliato. Il punto non è fissare una data e cercare di arrivarci in qualche modo. Il punto è capire quali sono gli obiettivi della nostra guerra, quella di Isaf, in Afghanistan, adeguare la strategia agli obiettivi e ritirarsi quando saranno stati raggiunti o quando risultasse evidente che è impossibile ottenere più di quanto è stato conseguito. Ma procediamo con ordine. Quello che tutti sembrano aver dimenticato è che la guerra in Afghanistan era già in corso quando la coalizione internazionale è arrivata.

Era una guerra tra l’Alleanza del Nord, il cui leader Massud fu eliminato poche ore prima dell’11 settembre, e il regime talebano. L’intervento occidentale in quel conflitto fu causato dagli attentati dell’11 settembre e dal rifiuto del regime talebano di consegnare Osama alle autorità americane, come richiedevano le Nazioni Unite. Noi non siamo entrati in guerra per trasformare l’Afghanistan in una socialdemocrazia, né per far prevalere questa o quella fazione. Ma abbiamo sostenuto una fazione e rovesciato il regime talebano per un duplice scopo: quello esplicito di eliminare le cellule qaediste e catturare Bin Laden e quello implicito di tenere la guerra lontano dall’Occidente, dopo che Bin Laden era riuscito a portarla nel cuore dell’Occidente.

Potremo discutere all’infinito se, finora, l’obiettivo esplicito è stato raggiunto, consapevoli che di Bin Laden si sono perse le tracce tanto che neppure sappiamo se è ancora vivo, ma anche che gran parte della struttura qaedista in Afghanistan è stata eliminata fisicamente. Siamo peraltro riusciti a tenere la guerra lontano dalle nostre case, anche se, in questi nove anni, Londra e Madrid sono state colpite da due gravi attentati terroristici. La domanda che oggi dovrebbero porsi i leader della Nato e dei Paesi associati è se, arrivati a questo punto, non occorra cambiare radicalmente strategia per raggiungere i medesimi obiettivi (tenere lontana la guerra e colpire Al Qaeda), cioè se la presenza delle truppe Isaf costituisca ancora uno strumento efficace o possa essere invece controproducente rispetto ai nostri scopi di guerra. Che non sono quelli di Kharzai. Il Presidente afgano ha i suoi scopi, sintetizzabili nel restare al potere e nel cercare di dare un minimo di tregua al suo popolo. Per potercela fare ha bisogno come minimo di avere un migliore strumento militare, che gli consenta di consolidare la propria posizione, e poi di cercare una soluzione politica del conflitto che sia la sua e non la nostra, parlando con chi ritenga opportuno. A tal fine, la nostra presenza rischia di essere un impiccio. Finché Isaf sarà in Afghanistan il raggio di trattative che Kharzai potrà intavolare con successo sarà di necessità limitato. Ma se l’Alleanza riterrà che, giunti a questo punto, il conseguimento dei nostri scopi di guerra richieda il ritiro di Isaf, allora si dovrà procedere in questa direzione. Valutando solo che ciò avvenga senza mettere a rischio la credibilità della Nato e chiarendo che se l’Afghanistan, con o senza l’associazione dei talebani al governo, dovesse tornare a essere un santuario per i terroristi, si esporrà a una massiccia rappresaglia militare.

Durante i quasi dieci anni di guerra, ci siamo ritrovati a combattere per obiettivi probabilmente irrealizzabili con queste modalità e comunque in così poco tempo. Le foto delle ragazze di Kabul negli Anni 60, con i loro tailleur e i loro capelli al vento ci ricordano che la situazione è regredita di conflitto in conflitto, da quando il Paese è scivolato nella guerra civile che portò all’intervento russo. Quello che abbiamo imparato è che, quando la guerra è tra la gente, conquistare i cuori e le menti della popolazione civile è la sola via per vincere. Ma farlo mentre si combatte è quasi impossibile. Sarebbe come cercare di fare contemporaneamente lo sbarco in Normandia (in cui morirono più civili francesi che soldati di tutti gli eserciti) e il Piano Marshall. Ed è proprio quello che stiamo provando a fare in Afghanistan.

da www.lastampa.it