cultura

«Bondi, un comò molto scomodo», di Tomaso Montanari *

Un mobile da 15 milioni di euro, prima patrimonio italiano, improvvisamente svincolato dal Comitato scientifico del ministero: indaga la Procura di Roma
A fine anno, la Consulta Universitaria Nazionale di Storia dell’Arte (Cunsta) aveva chiesto le dimissioni del ministro Bondi. Martedì si è nuovamente riunita e a seguito delle notizie sullo svincolamento della commode Luigi XV la Cunsta chiede le dimissioni anche del Comitato tecnico scientifico per il patrimonio storico e artistico del Mibac.

Una delle più inquietanti caratteristiche del ‘pontificato Bondi’ è stato l’ostentato disprezzo nei confronti delle competenze tecniche presenti all’interno del ministero per i Beni e le Attività culturali. Il mellifluo ministro ha affidato a discutibili commissari esterni il cantiere degli Uffizi e gli scavi di Pompei; ha fatto carte false pur di offrire a Vittorio Sgarbi una soprintendenza delicatissima (quella di Venezia) che poteva andare a candidati interni molto meno costosi e molto più affidabili; ha demandato la valorizzazione del patrimonio artistico a un supermanager degli hamburger.
E ANCHE quando le competenze tecniche non sono state esautorate, la loro indipendenza e autorevolezza sono state gravemente minate, come lasciano sospettare le imbarazzanti traversie del Comitato tecnico-scientifico per i beni storico-artistici, che è l’unico organo ministeriale composto unicamente da storici dell’arte (la presidente Marisa Dalai Emiliani, in rappresentanza degli storici dell’arte universitari, in pensione da un anno, ma prorogata; Caterina Bon Valsassina, eletta da quelli del Ministero; Carlo Bertelli e Orietta Rossi Pinelli, nominati da Rutelli e confermati da Bondi). Già nell’acquisto del crocifisso cosiddetto di Michelangelo quell’organo aveva dato una prova a dir poco preoccupante. Il Comitato, infatti, consigliò a Bondi di investire in quell’opera mediocre alcuni milioni (di un bilancio disastratissimo): e lo fece senza consultare nessun esperto terzo rispetto all’attribuzione, ma considerando esclusivamente gli scritti di chi aveva pubblicato l’opera in un catalogo commerciale, ascoltando solo la funzionaria che aveva proposto l’acquisto e non valutando un importante parere contrario. E’ come se un comitato del ministero della Sanità mettesse in circolazione un nuovo farmaco basandosi solo sulla letteratura finanziata dalla casa farmaceutica. Ma la condotta del Comitato diventa sconcertante nella vicenda della rarissima commode realizzata nel 1744 dall’ebanista Antoine-Robert Gaudreaus per Luigi XV di Francia. Quando una collezionista la portò in Italia, nel 1962, quell’opera entrò legalmente a far parte del nostro patrimonio artistico, e quando – nel 1986 – un suo nuovo proprietario chiese di esportarla, la risposta fu negativa: visto il suo rilevantissimo interesse artistico, essa venne notificata e vincolata. Vent’anni dopo, nel 2007, la fondazione filantropica ‘Edmond Safra’ (subentrata nella proprietà) chiese la revisione del vincolo, che fu negata: la commode doveva rimanere in Italia. La Fondazione ricorse allora al Tar, e ottenne un annullamento del diniego per vizio di forma. Lo stesso Tar, tuttavia, invitò il ministero a riformulare, stavolta correttamente, quello stesso diniego. Anche l’Avvocatura dello Stato raccomandò al ministero la stessa cosa, e la Soprintendenza di Roma ritenne ancora validi i motivi scientifici e culturali che avevano motivato il vincolo. Su questa base, l’Ufficio legislativo del Ministero forni un parere a favore del ripristino del vincolo: parere ritenuto tanto canonico da esser inviato a tutte le soprintendenze italiane. NIENTE LASCIAVA dunque immaginare che un mero incidente formale potesse indurre il ministero a cambiare idea. Ma qui arriva il colpo di scena. Nella primavera del 2009 il Comitato tecnico scientifico giudicò “accettabile” l’istanza di revisione del vincolo, e consigliò dunque a Bondi di smentire la linea ventennale del ministero, concedendo alla Fondazione la libertà di esportare e vendere l’opera: che vale oggi circa 15 milioni di euro. Così, in autunno, il direttore generale Roberto Cecchi decise di non ascoltare Tar, Avvocatura e Ufficio legislativo e di svincolare la commode facendo invece leva sull’unica voce fuori dal coro, quella del Comitato. Si trattò di un episodio irrituale e, la cui portata andava ben oltre la sorte del singolo pezzo. Il 16 novembre 2009 Salvatore Settis si chiese, su Repubblica, se “questa spallata al Codice è un incidente di percorso, o segnala all’interno del ministero l’esistenza di un “partito votato allo smantellamento delle norme di tutela”. Marisa Dalai rispose che il Comitato era stato convinto dalle ragioni contenute nella relazione scientifica di Alvar Gonzalez Palacios. Questi sosteneva che l’opera fosse totalmente estranea alla tradizione artistica italiana, e che quindi non ci fossero ragioni per trattenerla da noi. Opinione rispettabile, ma che non tiene conto del fatto che la legge italiana non tutela in base alla nazionalità dell’opera, ma in base alla sua importanza. Se poi volessimo proprio ridurci a frugare nell’anagrafe degli autori del mobile, non dovremmo dimenticare il decisivo apporto dello scultore Jacques Caffieri (l’autore delle decorazioni in bronzo), il quale apparteneva a una famiglia di artisti di origine napoletana rimasta sempre in contatto con l’arte romana grazie a fitti viaggi di studio. Il punto vero, tuttavia, e che l’alternativa non è soltanto tra tenere un capolavoro in Italia o mandarlo all’estero, ma tra monitorarne la posizione, e dunque tutelarlo, o lasciare invece che si inabissi in luoghi nei quali nessuno potrebbe più rintracciarlo. Ma, anche a prescindere dalle obiezioni di merito, quella di Palacios era una relazione di parte, commissionata e pagata dalla proprietà che chiedeva la rimozione del vincolo: perfettamente legittima, ma impossibile da assumere come base di una decisione volta a difendere l’interesse pubblico. E qui si torna al “metodo Michelangelo”, secondo il quale l’interesse di tutti si determina in base alle opinioni e agli interessi di pochi privati. Ma l’atto di sequestro della commode disposto dieci giorni fa da un giudice per le indagini preliminari di Roma trasforma questi sospetti in interrogativi ben altrimenti inquietanti. Da un esame degli atti risulta, infatti, che la prima riunione del Comitato (24 marzo) si era conclusa con un (logico) orientamento verso il rinnovo del vincolo. Un mese dopo, invece, il Comitato scelse la strada opposta e decise di liberare l’opera. Cosa era successo nel frattempo? Era successo che il direttore generale Cecchi era intervenuto alle due riunioni in compagnia di Giovanni Ciarrocca, avvocato dlei proprietari della commode. Si tratta di una incredibile anomalia, e non solo per questo strano sodalizio: tanto è vero che i verbali del Comitato omettono la circostanza, che è stata ricostruita e accertata dagli inquirenti attraverso alcune provvidenziali intercettazioni telefoniche (prodighe di altre informazioni, ancor meno tranquillizzanti, circa il contorno della vicenda), e attraverso testimonianze di due membri del Comitato stesso.
IN POCHE PAROLE , l’organismo tecnico-scientifico dove si forma la volontà dell’amministrazione pubblica è stato inquinato dalla presenza (illegittima) di un portatore di interessi privati: è come se l’avvocato della difesa entrasse in un collegio di periti. Ed è impossibile non chiedersi se proprio in questa presenza aliena e inconfessabile non si annidi la spiegazione dell’altrimenti inspiegabile voltafaccia del Comitato. Come professore di Storia dell’arte dell’università italiana, trovo imbarazzante che una rappresentante della mia categoria presieda un Comitato scientifico con tanta noncuranza verso le regole, e con così scarsa ‘scientificità’: quel che è finora emerso, e ciò che l’avanzare delle indagini potrebbe fare emergere, indica che solo le dimissioni dei suoi membri attuali potrebbero restituire autorevolezza al Comitato stesso. Ma il problema è ben più grave e generale: sotto la pressione berlusconiana del disprezzo per lo Stato e per l’interesse pubblico, anche il cuore della tutela del patrimonio artistico italiano (cioè la libera conoscenza scientifica) comincia a mostrare crepe pericolose. Se dovesse cedere, sarebbe un crollo ben più grave e gravido di conseguenze di quello di Pompei.

*Professore associato di Storia dell’arte moderna, Università degli Studi di Napoli Federico II

da Il Fatto Quotidiano