La discussione italiana sulla Libia appare sempre un po’ fuori tempo. Siamo partiti troppo lenti, sperando nello status quo. Si è detto che Gheddafi non era come Mubarak: infatti non lo è, è ben peggiore. Ci siamo poi concentrati sul cosiddetto esodo biblico dal Maghreb: e finalmente cominciamo a preoccuparci delle sue conseguenze umanitarie. Infine, mentre c’è aria di guerra civile e sono state firmate le prime sanzioni dell’Onu, abbiamo aperto un «grande dibattito» sul Trattato bilaterale italo-libico: un Trattato che non avrebbe dovuto essere firmato e che è stato ormai superato dagli eventi (qualunque sia l’artificio giuridico per sospenderne l’applicazione).
Insomma, stiamo perdendo di vista il punto cruciale. Il punto cruciale è che Gheddafi non sta mollando e non lo farà. Del resto, la prospettiva del ricorso al Tribunale internazionale rende più difficile di prima una via di uscita negoziata (esilio?) col raiss di Tripolitania. Nel frattempo, la Libia è spezzata in due: la Cirenaica da una parte, con il governo provvisorio di Bengasi, e Tripoli dall’altra. In mezzo, quei millecinquecento chilometri di costa sabbiosa su cui avrebbe dovuto essere costruita la famosa autostrada finanziata dall’Italia. E ai lati una folla di rifugiati, che preme verso la Tunisia e in parte verso l’Egitto. Una bomba umanitaria in piena regola, che si somma alle morti già avvenute con la repressione interna.
Uno stallo del genere, con tutti i pericoli che si porta dietro, era prevedibile. Il comportamento di Gheddafi non è poi molto diverso da quello di Milosevic, altro dittatore amico dell’Italia e che alla fine (1999) abbiamo bombardato, assieme agli impianti di Telecom a Belgrado. Il punto è che la gestione internazionale della crisi libica rischia di entrare in una spirale molto simile: dalle sanzioni economiche ai corridoi umanitari, fino ai bombardamenti militari. Siamo preparati a un esito del genere? La sensazione, guardando agli interventi occidentali degli ultimi due decenni, è che questo tipo di guerre moderne nascano appunto così: come guerre non dichiarate e forse neanche volute, ma che diventano inevitabili come ultimo anello di una catena di azioni-reazioni. Quale Paese in prima linea, molto più esposto di altri, l’Italia ha interesse a evitare che la risposta internazionale alla crisi libica ricalchi le stesse dinamiche. Perché l’esito sarebbe già scritto: finiremo per bombardare Tripoli.
Se americani ed europei decidessero di colpire sedi e strumenti del potere di Gheddafi, come si comincia a chiedere da Bengasi, le implicazioni sarebbero almeno tre. Primo: diventeremmo alleati di una parte in conflitto, così come lo diventammo a suo tempo dei guerriglieri kosovari-albanesi. E’ una scelta politica che siamo intenzionati a compiere? Non è facile rispondere, anche perché non è chiaro, in realtà, come sia composta la galassia assai frammentata dell’opposizione cirenaica. Secondo: l’appoggio cinese e russo alla prima risoluzione dell’Onu è stato essenziale; ma è escluso che Pechino (e forse Mosca) possano votare a favore di un’azione militare, che sarebbe quindi essenzialmente americana ed europea. Dopo aver bombardato, gli occidentali sarebbero comunque oggetto del risentimento della popolazione locale: la gratitudine dei popoli liberati è merce rara.
Terzo: l’uso della forza nei conflitti interni agli Stati non si esaurisce con il primo intervento. Crea anzi le premesse di una lunga presenza, militare e politica, trasformando nei fatti la «responsabilità di proteggere» – ossia un intervento motivato da ragioni umanitarie – in un semi-protettorato. A dodici anni dall’intervento in Kosovo siamo sempre lì, con i nostri soldati e i nostri soldi. E’ un onere che l’Italia e l’Europa sono pronte ad assumersi, in Libia?
Vista l’importanza di queste conseguenze, tentare prima strade diverse è ragionevole – ammesso che la violenza contro il popolo libico non torni a crescere rapidamente. Una parte della diaspora libica, ad esempio, sostiene che nella cerchia ristretta del Colonnello esistano ancora interlocutori possibili, pronti a fare uscire di scena Gheddafi e ad avviare trattative con il governo provvisorio. Un golpe interno, con appoggi internazionali, sarebbe in ogni caso preferibile – almeno come modo per liberarsi del raiss di Tripoli – a un intervento esterno. Nel frattempo, l’Italia dovrà comunque rafforzare gli sforzi umanitari, cercando di garantirsi un appoggio più concreto dell’Europa. Dovrà anche vagliare, con Stati Uniti e Lega Araba (che ha aperto all’Unione africana), l’opzione di una «no fly zone»: non come primo passo verso bombardamenti militari su più larga scala, ma per evitarli, impedendo una repressione tale da costringere a un vero e proprio intervento militare.
In conclusione: i costi e le implicazioni delle decisioni che stiamo prendendo devono essere chiari. Troppo spesso, di fronte alle crisi passate, l’Italia è stata trascinata – a volte nella giusta direzione, a volte meno – dalla spirale degli eventi. In questo caso l’Italia, viste le sue responsabilità particolari di fronte alla Libia, potrà tentare di influire sulle scelte collettive. Ricordando il punto sostanziale: a lungo termine, l’unica vera condizione per la stabilità della Libia è che sia retta dalla propria gente, invece che dai dittatori locali o dalle vecchie potenze coloniali.
La Stampa 03.03.11