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«Libertà e petrolio le voci di Tripoli», di Giuliano Amato

Lo so che il tema che più desta la nostra attenzione, e le nostre preoccupazioni, è oggi la Libia. È lì la rivolta popolare nordafricana dall’esito più incerto, quella che può trasformarsi in una guerra civile o addirittura in un conflitto armato più ampio, con l’intervento dell’Onu, forse della Nato e quindi in qualche modo della stessa Italia. Per non parlare delle conseguenze economiche di tutto ciò, a partire dal petrolio.
Ma dal Nordafrica non ci vengono solo preoccupazioni. Quello che è successo in Tunisia e in Egitto, che neppure sappiamo come andrà a finire, è stato segnato da novità che possono avere riflessi positivi sulla vitalità e le prospettive delle nostre stesse democrazie.

Ed è proprio su tale aspetto, riguardante temi più volte toccati su queste colonne da Gianni Riotta, che vorrei attrarre l’attenzione dei lettori.
Da tempo si parla in Occidente di democrazie malate e la malattia viene ricondotta a due fattori diversi, che si sono connessi perversamente fra loro. Per mille ragioni è intervenuta una crescente individualizzazione delle nostre vite, che ha reso sempre più marginali e sottili i legami associativi che portavano ciascuno a vivere una parte del suo tempo insieme ad altri e a formare con loro le sue opinioni.

È capitato così con i partiti politici, con i sindacati e con altre esperienze comunitarie che, specie in alcuni dei nostri paesi (con gli Stati Uniti in testa) costituivano il tessuto vivente della democrazia dei cittadini.

In questa chiave Tocqueville aveva letto la democrazia americana, ma proprio dall’America venne anni fa il grido d’allarme di Robert Putnam, quando scoprì che i suoi concittadini sempre più vanno a giocare a bowling da soli (Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, 2001). Tra lavoro, spostamenti, spesa, cura dei figli è già molto se si salva il week end. Gli altri giorni si finisce in casa, in famiglia ed è lì ormai che si formano le opinioni dei più sugli affari collettivi. Come? Attraverso i mass media, che diventano perciò la fonte dominante.

E qui entra il secondo fattore, il ruolo appunto dei media, e principalmente della televisione, come veicoli di messaggi politici nei quali tendono a prevalere la semplificazione dell’unilateralità, l’anatema del nemico, l’appello alle emozioni anziché alla ragione. E non per una naturale propensione della tv a veicolare solo questo, ma per una facile alleanza fra i canali che essa offre e una politica che non ha più le comunità intermedie nelle quali si formavano dialogicamente le sue posizioni e che di conseguenza si rivolge direttamente ai cittadini e cerca con loro la via più facile, quella di eccitarli contro un nemico e di fidelizzarli come tifosi.
Di qui la malattia di assetti democratici nei quali il processo elettorale rimane intatto, ma vengono meno momenti non meno essenziali, quelli che consentivano agli stessi cittadini di partecipare attivamente alla formazione delle opinioni e delle posizioni politiche e non di esserne soltanto coinvolti come fan degli uni o degli altri. Si aggiunga che anni addietro, quando il web aveva preso a diffondersi, si era anche diffusa l’aspettativa della cosiddetta democrazia elettronica, la democrazia della rete, ma gli anni l’avevano poi progressivamente attenuata, a causa dell’uso crescentemente privato dei nuovi mezzi di comunicazione.

Un nuovo spiraglio lo aveva aperto la campagna elettorale, condotta largamente sul web dal presidente Obama. Ma l’uso da parte dei leader dei canali informatici faceva presto intravedere un possibile assorbimento di questi nell’orbita della stessa politica che già incombeva sui media tradizionali. È esattamente qui che entrano in campo le novità emerse nelle vicende di Tunisia ed Egitto.

Non leggiamole come se si trattasse della magia della rete, quasi che questa avesse attivato e portato al successo per virtù propria ben due rivolte popolari. Non è così, ci sono state intelligenza, strategia e volontà umane in quelle rivolte, ma difficilmente avrebbero avuto il successo che hanno avuto senza la rete e i cellulari di cui ci si è avvalsi. È significativo che l’occasione abbia portato a una celebrità, mai tanto diffusa in passato, quello che è ritenuto uno dei teorici più letti dalle giovani menti dei rivoltosi, un vecchio professore americano, Gene Sharp, che negli scorsi anni aveva già influenzato i movimenti dissidenti di diversi paesi, dall’Estonia alla Birmania, allo Zimbawe.

Ebbene Sharp, che personalmente ha scarsissima familiarità col computer (ce lo dice l’Herald Tribune del 18 febbraio scorso), nel suo libretto più noto, From Dictatorship to Democracy del 2003, suggerisce strategie e azioni (ne elenca e ne descrive ben 198) per erodere le dittature e portare pacificamente alla vittoria la democrazia, ma non parla mai delle nuove tecnologie di comunicazione. E tuttavia, se i suoi suggerimenti hanno avuto tanto successo in Tunisia e in Egitto, molto lo si deve al fatto che chi li ha messi in pratica ha utilizzato per l’appunto quelle tecnologie. È grazie ad esse che si sono formati in modo virtuale e senza visibilità esterna nuclei di quelle formazioni intermedie da Sharp stesso indicate come tessuto ancora oggi essenziale della vita democratica. Ed è sempre grazie ad esse che si è diffusa fra i cittadini un’informazione non inquinata dal potere contro cui ci si stava muovendo e li si è chiamati efficacemente a raccolta. Né va dimenticato – e giustamente lo ha scritto giorni fa sulla Repubblica Barbara Spinelli – che la stessa televisione, attraverso Al-Jazeera, ha giocato nel medesimo senso, a testimonianza di un ruolo che non è segnato, ma dipende dall’uso che chi lo possiede decide di farne.

Nelle democrazie malate dell’Occidente non ci sono dittature da abbattere, c’è una salute da ritrovare, riavendo, nel contesto cambiato del XXI secolo, gli spazi e i modi della cittadinanza attiva. Li forniva in passato l’adesione a stabili e diversificati organismi associativi, che oggi o sono scomparsi, o hanno perso aderenti e funzionano anche per questo assai diversamente. Ebbene dalla Tunisia e dall’Egitto ci giunge la notizia che non c’è nessuna ragione di vivere il cambiamento in corso come un processo d’irreversibile impoverimento delle nostre democrazie, sempre più prigioniere di contrapposizioni corrosive e iperbolicamente conflittuali. Trasferendo ciò che là è accaduto nei nostri contesti, si colgono i tratti di una cittadinanza attiva che, se lo vuole, ha i mezzi per esplicarsi con modalità compatibili con la vita di oggi. La democrazia vive – m’insegnavano da ragazzo – se tutti disponiamo dei mezzi necessari a diffondere fra gli altri il nostro pensiero. Ancorché contenuto nell’articolo 21 della Costituzione, allora era solo un auspicio. Oggi è finalmente una possibile realtà.

da www.ilsole24ore.com