cultura

“Andate in piazza e chiedete cultura”, di Maria Giulia Minetti

Andrea Jonasson, vedova Strehler, nominata Grande Ufficiale “Fate come in Germania, la crisi c’è ma nessun teatro ha chiuso”.
«E a Vienna per incoraggiare i giovani se la sala non è piena vendono i biglietti a 7 euro». Può anche darsi che ce ne siano in giro di più emozionati, più felici e stupiti di essere stati così onorati dallo Stato, ma sembra assai improbabile. Grande Ufficiale al merito della Repubblica è un titolo che difficilmente un’artista del palcoscenico si aspetta (pure Commendatore, del resto, anche se Mariangela Melato lo divenne, nel 2003), e dunque Andrea Jonasson, italiana d’adozione, tedesca di nascita e crescita, s’è davvero commossa ricevendolo. Titolo non raro, va detto, e generosamente distribuito sono migliaia i Grand. Uff. che popolano l’elenco degli insigniti dal 1951, anno d’istituzione dell’Ordine, a oggi -, ma a rendere speciale, o almeno fuori del comune, quello attribuito a Jonasson è il giorno in cui l’ha avuto, lo scorso 10 marzo. Per legge, le onorificenze vengono concesse il 2 giugno (fondazione della Repubblica) e il 27 dicembre (promulgazione della Costituzione), non si sfugge a queste date. Ammenocché non intervenga il Presidente con un «motu proprio». Nel qual caso ogni momento è buono.
E che Napolitano abbia deciso di decorare la grande attrice compagna di Strehler e protagonista di suoi celebri spettacoli (L’anima buona di Sezuan, Minna von Barnhelm) proprio a ridosso dell’ultimo taglio al Fondo Unico dello Spettacolo, solo un eremita himalayano potrebbe ritenerlo una coincidenza fortuita. Ma la signora Jonasson vive tra Milano e Vienna, non sul tetto del mondo, la scelta presidenziale l’ha capita benissimo, perciò la sua emozione è così intensa: «In Italia la cultura, a livello governativo, è disprezzata. Per questo sono felice del gesto di Napolitano. A Roma è venuto a trovarci all’Argentina (dove il Piccolo Teatro ha appena portato Donna Rosita nubile di García Lorca, protagonista appunto Jonasson), ci ha fatto i complimenti in scena. Era come se ci dicesse: tenete duro». Lei lavora molto in Austria e Germania. Che succede da quelle parti? «La crisi c’è anche lì. Ma la parola d’ordine è: non dobbiamo abbandonare la cultura. Tutte le città in Germania hanno diversi teatri, solo le più piccole ne hanno uno, e nessuno ha chiuso. A Vienna, la capitale di uno Stato certo non ricco come lo Stato tedesco, funziona benissimo anche il Burgtheater, il più grande della città, una capienza di 1400 posti. A Vienna, per incoraggiare i giovani, fanno una cosa importante: quando la sala, a poche ore dallo spettacolo, non è esaurita, danno i biglietti ai ragazzi per 7 euro, come al cinema». Che la cultura, in particolare il teatro, sia sempre stato meglio nei territori germanici non è cosa nuova, però. «No di certo. “Anche una città tedesca minuscola, Tubinga, per esempio, ha più sovvenzioni del Piccolo di Milano”, mi ripeteva sempre Giorgio (Strehler)». Se c’era già poco denaro ai tempi d’oro di Strehler, si capisce come mai ora siamo alla canna del gas. In fondo c’è una logica, una continuità. «Forse una logica, non una continuità. Vede, nonostante la penuria la penuria rispetto a teatri più ricchi, più stimati e foraggiati dai rispettivi governi -, un po’ di soldi c’erano e, soprattutto, c’era un pubblico, c’era la voglia di produrre arte che viene dalla richiesta del pubblico». C’è meno richiesta di qualità, oggi, in Italia? «Mi pare di sì, decisamente di sì. Credo che abbia preso il sopravvento un certo gusto televisivo, una certa assuefazione al disimpegno, alla volgarità spicciola. In questo senso, è vero che fino agli Anni 80 si può parlare di anni d’oro». È il ventennio berlusconiano che lei mette sott’accusa? «Giorgio, anche nei “tempi d’oro”, era spesso deluso. Lavorava molto all’estero, faceva i confronti con l’Italia. “Per dirti la verità diceva siamo un po’ un Paese da operetta”. Da operetta! Ma l’operetta è anche allegra, nell’operetta si sorride. Io non la riconosco più, l’Italia. Vedo una gran mancanza di dignità, un’incapacità di reagire alle bassezze… I miei amici tedeschi non capiscono: “Perché lavori con chi non rispetta né l’arte né il popolo? Come fai a resistere?”».
Come fa? «Sono legata a questo Paese. Finché mi capita ancora un lavoro al Piccolo non mi sento di lasciarlo. Recito però sempre più a Vienna». Cosa le dà più fastidio, nell’andazzo italico? «Mi indignano quelle troiette che fanno la tv e poi si chiamano e vengono chiamate attrici. Ne ho sentita una l’altro giorno, un’ex velina. “Adesso sono un’attrice”, diceva all’intervistatore, serio e compunto. Per noi è un’offesa. Recitare è un mestiere difficile, com’è difficile il mestiere di falegname, di sarto. Ci vuole tempo, impegno, talento, applicazione. Tutto quello che la tv berlusconiana ci dice che non serve. E infatti, basta guardare la robaccia che produce».
Che fare? «Il pubblico dovrebbe riaversi dal torpore, andare in piazza e chiedere cultura. In piazza a chiedere cultura come si chiede la libertà, come si chiede un diritto. Una persona mi ha detto: “Signora, voglio che i miei figli crescano vedendo begli spettacoli come una volta”. E m’ha fatto un’infinita tristezza risponderle: “Non so se sarà possibile, purtroppo”».

La Stampa 21.03.11