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"Perché l'Italia non cresce", di Fabrizio Galimberti

«Giudica un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte», disse Voltaire. E oggi non c’è domanda più importante di questa: perché l’Italia non cresce? Perché quando le cose vanno male da noi vanno peggio e quando vanno bene da noi vanno meno bene? Perché negli ultimi quarant’anni siamo cresciuti meno delle altre aree del mondo, sia quelle lontane che quelle vicine? Perché questo divario di crescita si è ancora allargato negli ultimi anni?

Non c’è domanda più importante, si è detto. Ed è una domanda che dobbiamo porci, insistentemente e ossessivamente, anche se non avessimo le risposte. Perché è la domanda giusta da fare, perché la crescita è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per risolvere i problemi: con la crescita possiamo affrontarli, senza crescita tutto si aggrava.
Di fronte a questa domanda sono possibili diverse risposte. Sbarazziamo dapprima il campo dalle risposte sbagliate: alcuni mettono la testa nella sabbia, o dicendo che le cifre non sono vere, o rifugiandosi in uno sterile “moralismo economico”: noi siamo formiche e gli altri crescono di più perché spendono e spandono come cicale. Quasi che un divario che dura da quarant’anni possa essere spiegato in termini di mezze verità o mezze bugie. Né il divario può essere spiegato in termini di partigianeria politica: quale che sia il colore del governo pro-tempore l’economia italiana ha continuato ad arrancare.

No, ci sono ragioni profonde e strutturali, che affondano le radici nell’humus della società, negli snodi e nelle giunture che presiedono al funzionamento del nostro sistema produttivo. Un sistema produttivo che, come giustamente celebrato da tanti laudatori delle nostre imprese, ci offre tanti esempi di successi e di primazie, tante nicchie di eccellenza, tante figure di duro e ostinato lavoro, tanti innovatori che «si alzano con le allodole e si coricano con le civette». Perché, allora, questo celebrato materiale umano, questo sapere produttivo, questa lunga linfa che risale alle prodezze artigianali delle città-stato del Medioevo non riesce a “fare sistema”, a innestare – e, soprattutto, a mantenere nel tempo – un processo autonomo di crescita? Un “fare sistema” che è tanto più necessario in questi anni, quando la concorrenza dei paesi low cost rende di tanto più importante la capacità di un paese di antica industrializzazione di competere nell’arena internazionale con un efficace connubio di pubblico e privato.

Un primo indizio sta nell’osservare che un buon terreno non basta. L’humus può essere fertile e ricco ma rimane vero che migliore è il terreno, più gramigna produce a non coltivarlo. E il “coltivarlo” non è solo compito degli imprenditori. Il sistema produttivo italiano ha due facce: una sottoposta a una feroce concorrenza internazionale, e un’altra che, preoccupata della battuta di George Orwell – «il problema con la concorrenza è che qualcuno vince…» – cerca di proteggersi da questo “problema” con connivenze interne ed esterne. Ma il “coltivarlo”, in quella mezzadria fra pubblico e privato che è l’economia di mercato, rimane compito precipuo dell’operatore pubblico. L’atmosfera culturale che deve respirare invece un’impresa italiana è ben esemplificata da una frase di Winston Churchill: «Molti vedono l’impresa come una vacca da mungere, altri come un nemico da abbattere. Io la vedo per quello che è: un cavallo robusto che tira una carretta molto, molto pesante». Il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di lubrificare le ruote della carretta e spianare le strade che deve percorrere. Invece molto spesso in Italia i governi, come accade in questi giorni con il caso Lactalis-Parmalat, si preoccupano più di questioni nominalistiche di onore nazionale, come se il passaporto dei proprietari contasse di più di quelle bravure imprenditoriali e di quelle dotazioni infrastrutturali che sole determinano le convenienze delle localizzazioni produttive.

Il problema principale dell’economia italiana e della sua scarsa crescita sta insomma nei sospetti e nelle incapacità a collaborare che avvelenano i rapporti fra pubblico e privato. Come disse John Maynard Keynes, la politica economica non dovrebbe essere qualcosa che sradica una pianta, ma che la guida lentamente a crescere in una direzione diversa. Di quella “guida”, a parte le velleità di una “politica industriale” non degna di quel nome, non vi è traccia. E la politica in Italia è più una politique politicienne che si guarda l’ombelico che una politica alta preoccupata di creare le condizioni di base per il fiorire dell’intrapresa.
Sì, ma – potrebbero obiettare alcuni – non è forse vero che in Italia l’intrapresa fiorisce con una creazione netta di imprese alta e continua? Ma è proprio questa prolifica natalità che sottolinea il contrasto fra la voglia sfrenata di fare e le soffocanti difficoltà del continuare. Confronti internazionali suggeriscono che la natalità delle imprese in Italia può essere alta come altrove, ma le imprese non devono solo nascere: devono crescere. E, per esempio, a parità di natalità, le imprese che rimangono dopo cinque o dieci anni sono meno e meno grandi che altrove. Piccolo è bello ma nano non è bello: non si può rimanere piccoli per sempre. Le imprese nascono ma poi si trovano ad affrontare un ambiente ostile: o si rifugiano nel sommerso o stentano a crescere.

Il ruolo dello Stato va molto al di là di una “politica industriale” (termine sospetto che spesso si risolve in una soluzione alla ricerca di un problema). Il ruolo principale dell’operatore pubblico è quello di creare due tipi di infrastrutture: una dotazione infrastrutturale fisica che è specialmente importante in Italia, dove la conformazione orografica e le peculiarità idrogeologiche richiedono forti spese in opere pubbliche; e una “infrastruttura regolatoria” che si scrolli di dosso le tante incrostazioni borboniche che appesantiscono di adempimenti burocratici e fiscali la vita delle imprese. In Italia la “riforma della pubblica amministrazione” è stata spesso avviata con grandi annunci, una riforma “orizzontale” che avrebbe bisogno, per produrre effetti, di una continuità amministrativa e di un pungolo politico che vengono negati dall’instabilità dei governi. Sarebbe più produttivo, invece, un approccio verticale volto a creare “isole di eccellenza” per particolari compiti, “isole” che possano poi agire da lievito per altre procedure.

Il Sole 24 Ore 24.03.11