memoria

"La giustizia negata", di Adriano Prosperi

Per la strage di Piazza della Loggia non ci sono colpevoli. Dopo due anni di dibattimenti e una lunghissima serie di udienze con una interminabile sfilata di testimoni, i giudici della Corte d´Assise di Brescia hanno mandato assolti i cinque imputati.Erano il generale dei carabinieri Francesco Delfino, l´ex deputato, senatore e segretario dell´Msi Pino Rauti, il medico Carlo Maria Maggi, l´imprenditore Delfo Zorzi, l´ex militante missino e informatore del Sid Maurizio Tramonte, detto in codice «Tritone». Leggiamo allibiti e increduli la notizia. Chissà quanti giovani oggi saprebbero dire di che cosa si parla quando si ricorda quella strage del 28 maggio 1974. Da allora il nome di Piazza della Loggia è entrato nella mappa italiana della politica del terrore.
Quel giorno ci fu in quella bellissima piazza di Brescia una manifestazione pacifica per reagire alla violenza fascista. Andare in piazza era una reazione istintiva alle trame occulte di forze invisibili che volevano uccidere con le stragi il diritto e la voglia di fare politica. Scoppiò una bomba, morirono otto persone, ci furono più di cento feriti. Il sangue fu ripulito subito e, con singolare sollecitudine, si fecero scomparire i detriti della bomba. Lo ricordava su questo giornale Benedetta Tobagi: una figlia degli anni di piombo, orfana per terrorismo. Per lei si tratta di un dato storico ascoltato, conquistato, rivissuto con fatica e dolore. Ma anche per la generazione che fu quella del padre suo non è facile ricordare. I ricordi sbiadiscono, si perdono: si fa uno sforzo per riportare a galla la memoria di quell´Italia in un paesaggio come quello attuale.
Ma una cosa è certa: se il paesaggio italiano è quello depresso e deprimente che abbiamo sotto gli occhi è proprio perché è mancata la giustizia. Non si è fatto quel che era necessario per riconciliare gli italiani col loro paese. Si parla spesso a sproposito di riconciliazione, di costruzione di quella che viene definita una memoria condivisa. Ma non è con la chirurgia estetica di qualche mago delle illusioni che potranno sparire le rughe e le fratture del corpo del paese. Che sono profonde. Sulle piazze del nostro paese quel che accadde in quegli anni lontani suggerisce un confronto per differenza con Ground Zero. In Italia l´attacco fu portato con uno stillicidio di attentati stragisti, per l´azione sotterranea di un nemico interno. E il confronto con quello che è accaduto oltre Oceano aiuta a capire perché oggi la tenuta morale e politica della società italiana appare tanto più fragile, tanto più esposta ai pericoli della demagogia e alle logore magie di avventurieri politici rispetto a quella degli Stati Uniti. Se l´evento terroristico di Ground Zero ha saldato quel paese proiettandolo nell´avventura della guerra contro un nemico esterno, in Italia è accaduto il contrario. Il nemico interno è rimasto sconosciuto e, anche se, non ci sono incertezze nel giudizio storico e politico – come ha detto Paolo Corsini – è un fatto che con questa sentenza si chiude la ricerca giudiziaria della verità.
Di questa sentenza attendiamo naturalmente di leggere le motivazioni: ma colpisce intanto il fatto che la Corte abbia fatto riferimento all´articolo 530 comma 2. In parole povere si tratta di insufficienza di prove. Chi ha cancellato, nascosto, fatto mancare le prove? Ogni volta, davanti all´argomento della insufficienza delle prove, ci si chiede a che cosa siano serviti o chi abbiano realmente servito quei servizi che da noi si chiamano di sicurezza.
Nei commenti a caldo il primo pensiero è andato ai morti rimasti senza giustizia: così ha detto Manlio Milani, il presidente dell´associazione dei familiari delle vittime della strage. In Italia ci sono diverse associazioni di questo tipo. C´è in questo qualcosa di singolare che dovrebbe far riflettere: che padri e madri, mogli e mariti, figli e figlie, siano costretti a diventare un soggetto collettivo e a dedicarsi assiduamente al perseguimento della giustizia è giusto e inevitabile. Ma è la lunga durata dell´impegno di queste associazioni, che va ormai al di là delle vite dei singoli: la persistenza di quell´impegno nel tempo lungo appare mostruoso e intollerabile e fa risaltare per contrasto la debolezza se non la totale assenza di un impegno dello Stato nelle sue autorità e nei suoi ultimi terminali al fine di assicurare la consegna alla giustizia e all´opinione pubblica dei responsabili e soprattutto dei mandanti. Davanti al banco di prova della saldezza del vincolo che lega una società alle sue istituzioni, che fa di un insieme di individui un corpo di cittadini unito dal rispetto di regole comuni, quello che è mancato è stato proprio lo Stato italiano.
C´è oggi una evidente e drammatica questione della giustizia in Italia: ma non è quella conclamata da chi vuole sfuggire alle sue responsabilità indebolendo l´opera della magistratura. La giustizia che ci manca è quella che deve far luce sulla storia recente del paese. C´è stato in Italia un protagonista nascosto che con le stragi di cittadini inermi ha cercato di far deragliare dai suoi binari la vita del paese . Ha cercato e in una certa misura vi è riuscito: perché se la società italiana oggi si disgrega in accozzaglie casuali e se appare sempre più incerta la prospettiva del futuro, se i principi del patto costituzionale nato dalla resistenza al fascismo vengono messi in dubbio o negati, è perché lo Stato italiano ha mostrato ambiguità e incertezze intollerabili nel reagire alle voglie golpiste delle forze attive dietro le stragi. È mancato all´appuntamento di quella verifica del rapporto di lealtà e di fiducia tra istituzioni e cittadini senza il quale una società si disgrega in accozzaglia casuale e il patto politico entra in crisi. Ma senza la verità non può esserci giustizia, senza giustizia non può esserci riconciliazione. La nebbia che circonda i nemici della Repubblica impedisce di fare chiarezza sulla strada che abbiamo davanti, allontana i cittadini dalla responsabilità delle scelte che li attendono-

La Repubblica 17.11.10

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“Trentasei anni tra spie e depistaggi il cuore nero della strategia della tensione”, di Benedetta Tobagi

Cinque fasi istruttorie e otto di giudizio, ma nessuna condanna in via definitiva. Nel terzo processo, il cui primo grado si è concluso ieri, c´erano proprio le “veline” del Sid
La vicenda giudiziaria (lunga ormai 36 anni) relativa alla strage di Piazza della Loggia è un labirinto composto di 5 fasi istruttorie e 8 fasi di giudizio. Nessun colpevole è stato condannato in via definitiva, ma le sentenze hanno via via sedimentato un patrimonio di conoscenza circa uno degli episodi più gravi della strategia della tensione.
Innanzitutto, inquadriamo il contesto: la strage avvenne in un momento politico delicatissimo – poco dopo la sconfitta del fronte conservatore nel referendum per il divorzio – e in un quadro di profonda instabilità politica (la formula di governo di centro-sinistra è ormai quasi del tutto esaurita). Altre inchieste giudiziarie hanno rivelato come in quell´anno 1974 si agitassero nell´ombra trame golpiste: dalla vicenda della “Rosa dei venti” al cosiddetto “Golpe Bianco” di Edgardo Sogno. La bomba del 28 maggio colpì al cuore una manifestazione antifascista indetta per protestare contro una serie di attentati di marca fascista, culminati nella morte del giovanissimo terrorista di destra Silvio Ferrari, legato al gruppo “La Fenice”, nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1974, ucciso dall´esplosivo che lui stesso stava trasportando in motorino nel centro di Brescia, a Piazza del Mercato.
Il giudice istruttore Giampaolo Zorzi (infelice omonimia con l´ordinovista Delfo), che ha lungamente indagato sulla strage dagli anni Ottanta, ha usato per descrivere la progressione delle cinque istruttorie l´immagine dei cerchi concentrici prodotti da un sasso gettato nell´acqua: dal primo filone investigativo, incentrato su figure del neofascismo locale, le indagini si sono allargate, fino a inserire l´azione bresciana in una rete operativa eversiva ben più ampia, inquadrando compiutamente la strage bresciana nel contesto della “strategia della tensione” da piazza Fontana (dicembre 1969) all´attentato sul treno Italicus (agosto 1974).
Il primo filone d´indagine (prima e seconda istruttoria) inizia nel 1974 e si conclude con la sentenza di Cassazione del settembre 1987; si focalizza principalmente su una pista locale: s´indagano piccoli delinquenti e giovani estremisti di destra della Brescia-bene, sulla base di dichiarazioni e confessioni. Figura chiave dei processi della “pista bresciana” fu Ermanno Buzzi, un oscuro personaggio che si muoveva tra criminalità comune, traffico di opere d´arte ed estremismo di destra. Condannato in primo grado, alla vigilia del processo d´appello (aprile 1981) Buzzi fu trasferito al carcere speciale di Novara, dove, nel giro di ventiquattr´ore, fu assassinato dai noti terroristi neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Un´esecuzione feroce: lo strangolano coi lacci delle scarpe e gli schiacciano gli occhi.
Un secondo filone d´indagine parte nel 1984 con la terza istruttoria, alimentata da informazioni provenienti da pentiti e dall´ambiente carcerario, e si conclude nel 1993 con la sentenza-ordinanza emessa dal G. I. Gianpaolo Zorzi.
Imputato per strage nel secondo processo fu Cesare Ferri, estremista di destra collegato al gruppo ordinovista milanese della Fenice di Giancarlo Rognoni e alle S. A. M. (Squadre armate Mussolini) di Giancarlo Esposti. Ferri fu accusato principalmente sulla base del riconoscimento da parte di un sacerdote che affermò di averlo visto in una chiesa a Brescia la mattina del 28 maggio.
I cerchi si allargano fino ad attingere, nella quinta istruttoria, una rete eversiva molto più ampia: la cabina di regia della strage viene individuata nella cellula mestrina dell´organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (la stessa di piazza Fontana), in collegamento al gruppo milanese della Fenice di Rognoni. Tale istruttoria ebbe origine da una “coda” del processo a Cesare Ferri: il giudice Zorzi identificò nel giovane missino Maurizio Tramonte la fonte “Tritone” (che era l´informatore dietro una mole di documenti emersi dagli archivi del Sid a partire dalla fine degli anni Ottanta). Nel 1995, Tritone-Tramonte comincerà a collaborare con i ROS dei Carabinieri.
Alla base del terzo processo, il cui primo grado si è concluso ieri pomeriggio, c´erano proprio le “veline” del SID e le dichiarazioni di Tramonte in veste di collaboratore, insieme ai copiosi materiali provenienti dall´istruttoria del G. I. Salvini per la strage di piazza Fontana (centrali anche nel processo di Brescia le dichiarazioni del pentito Carlo Digilio, alias “zio Otto”, l´armiere di Ordine Nuovo, unico condannato nell´ultimo processo per la strage di piazza Fontana). A partire da “Tritone” e Digilio, l´imputazione per concorso in strage è stata infatti estesa ai vertici mestrini di Ordine Nuovo (Maggi e Zorzi), a Pino Rauti e al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che fu incaricato delle indagini alla base della prima istruttoria.
È facile comprendere che provare in sede penale “al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo la celebre formula, coinvolgimenti così gravi e insieme delicati, documentare quale sia stato effettivamente il ruolo di un generale dei Carabinieri senza potersi giovare, ad esempio, della documentazione del centro di controspionaggio di Padova (dove operava il Maresciallo Felli, che gestiva la fonte Tritone), che è stata interamente distrutta, è molto, molto arduo. In attesa delle motivazioni, per figurarsi come mai si sia arrivati, dopo due anni di dibattimento e migliaia di pagine di verbali, a delle assoluzioni, “perché la prova manca, è insufficiente o contraddittoria” (art. 530 comma 2) è fondamentale andare a rileggere quella sentenza-ordinanza del 1993, dove il giudice istruttore Zorzi descrive un quarto livello di responsabilità, “non concentrico – scrive – ma intersecantesi con gli altri e quindi sempre presente, come un comune denominatore: quello dei sistematici, puntuali depistaggi”, dal lavaggio della piazza dopo l´eccidio, alla misteriosa scomparsa di Ugo Bonati, figura chiave nel primo processo, all´omicidio che ha chiuso per sempre la bocca a Buzzi; depistaggi che sono arrivati persino a sabotare la rogatoria in Argentina per impedire l´interrogatorio di Gianni Guido, criminale legato all´estrema destra e latitante.
I depistaggi hanno ostacolato il raggiungimento di una verità processuale. Fuori dall´aula, però, non potranno ostacolare la ricerca degli storici, né cancellare la memoria dei cittadini bresciani che ieri hanno visto nuovamente frustrato il loro bisogno di giustizia.

La Repubblica 17.11.10

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“Spioni, fascisti ed esaltati. Più chiare le colpe storiche”, di
Michele Brambilla

Siccome in Italia l’impunità dei bombaroli non è una sorpresa ma una tragica routine, la lettura della sentenza non provoca più né lo stupore né la rabbia di tanti anni fa. In aula solo un’anziana signora pronuncia, anzi sussurra un quasi timido «vergogna» prima di scoppiare in lacrime: chissà chi ha lasciato, quel 28 maggio 1974. C’è amarezza. Ma non sorpresa. Nessuno si faceva illusioni. Troppo tempo è passato perché si potesse ricostruire la verità «al di là di ogni ragionevole dubbio», come il Codice impone. Troppi depistaggi, troppe omertà, troppe ritrattazioni avevano reso l’inchiesta un puzzle impazzito e non più ricomponibile. Ma proprio quei depistaggi, quelle omertà e quelle ritrattazioni, se da una parte impediscono di arrivare a una verità giudiziaria, dall’altra consentono di giungere a una verità storica.

E cioè che per piazza della Loggia, così come per quasi tutte le altre stragi, uomini dello Stato hanno coperto, nascosto, deviato. Al di là delle assoluzioni, un quadro fosco di connivenze e intrecci inconfessabili sembra fissato per essere consegnato, se non ai giudici, agli storici. La formula scelta ieri dalla Corte d’assise per assolvere equivale alla vecchia insufficienza di prove. Vuol dire che le prove non bastano, ma almeno in parte ci sono. Non le prove delle responsabilità personali degli imputati; ma quelle del folle agitarsi di un mix di vecchi nostalgici del fascismo, di giovani ed esaltati estremisti, di spie, di ufficiali infedeli. E’ lo scenario che vede al centro Maurizio Tramonte, 58 anni, l’unico degli imputati a prendersi il disturbo di venire almeno qualche volta in aula a rispondere alla Corte.

Tramonte è l’uomo che ha dato il la al processo. Nei primi anni Settanta bazzicava la sede del Msi di Padova, tanto frequentata da teste calde da indurre Almirante a chiuderla. Per teste calde si intendono gli aderenti a Ordine Nuovo, un’organizzazione con due livelli, uno palese e uno clandestino. Così come tanti altri della sua risma, anche Tramonte era, oltre che un militante di estrema destra, anche un confidente dei servizi segreti: in codice, la «fonte Tritone».
Al centro di controspionaggio padovano mandava informative tenute in gran conto, se è vero che proprio in questo processo l’ex generale del Sid Gianadelio Maletti (già condannato per depistaggio per la strage di piazza Fontana) ha raccontato che Tramonte è stato, dal ’72 al ’76, «una fonte molto attendibile». Dunque che cosa dicevano quelle informative di Tramonte? Che si stava preparando un grosso attentato al Nord. Attenzione alle date.

Nel mese di maggio del 1974 a Brescia c’è tensione, ci sono piccoli attentati, qualche pestaggio. Il 19, alle tre di notte, Silvio Ferrari, un estremista di destra, salta in aria in città dilaniato da una bomba che stava trasportando sulla sua moto. Il 21 maggio ci sono tafferugli ai funerali di Ferrari e il Comitato antifascista annuncia una manifestazione per il giorno 28. Lo stesso giorno, 21 maggio, al Giornale di Brescia viene inviato un volantino firmato dal «Partito Nazionale Fascista, sezione Silvio Ferrari» in cui si dice che «l’ora è giunta… le bombe e i mitra faranno sentire la loro voce» e si avverte la popolazione di non frequentare «tutte le fogne in cui hanno sede i gruppuscoli rossi in genere». La questura e la prefettura decidono di non rendere pubblico questo volantino per non creare allarme. E veniamo a Tramonte.

Il 23 e il 25 maggio 1974 ordinovisti veneti si riuniscono in un albergo di Abano Terme e decidono di passare all’azione. Tramonte lo riferisce al controspionaggio: ci sarà un grosso attentato. Quando e dove? Non è specificato. Ma la manifestazione del 28 maggio in piazza della Loggia a Brescia, come abbiamo visto, era già stata fissata e annunciata. Un «obiettivo sensibile», diremmo oggi. Eppure il 28 maggio, un martedì, i carabinieri di Brescia sono a Mantova per un corso di formazione che di solito si svolgeva il sabato; il comandante del loro nucleo operativo, il capitano Francesco Delfino, è in Sardegna. In piazza della Loggia a dirigere l’ordine pubblico c’è un vice brigadiere della questura. E quando, a massacro appena consumato, la piazza viene lavata – eliminando possibili indizi sull’esplosivo – al sindacalista Franco Castrezzati che chiede spiegazioni viene risposto: «Lei pensi a fare il suo mestiere».

Prove di un depistaggio già partito o solo coincidenze? Il capitano Delfino era tra gli imputati di questo processo ma è stato assolto. Restano tante ombre. Ad esempio. Perché le informative di Tramonte restano nascoste per diciassette anni? Le troverà nel 1991 il giudice milanese Guido Salvini nell’archivio del Sismi di Padova. Perché non furono trasmesse subito ai giudici? La «fonte Tritone» viene identificata nel 1993. Tramonte comincia a parlare e conferma tutto. Ma nel 2000 ritratta in gran parte. La Cassazione non gli crede e così parte il processo. Nel frattempo però, muoiono alcuni testimoni importanti. Ci fermiamo qui. Questo è solo un piccolo spaccato di un’inchiesta con millecinquecento testimoni e novecentomila pagine di verbali.

Il processo conclusosi ieri è quasi certamente l’ultimo sulle bombe di quella stagione. Almeno per le stragi che vanno da piazza Fontana (dicembre 1969) al treno Italicus (agosto 1974), l’ambiente finito sotto la lente dei giudici è sempre stato questo: estrema destra e servizi segreti. La magistratura ha alzato ieri, forse definitivamente, bandiera bianca. Ma non è colpevole del fallimento. Anzi la sua impotenza richiama altre responsabilità che ora solo la politica potrebbe smascherare, se ne avrà voglia.

La Stampa 17.11.10

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Strage di Brescia, processi e servizi segreti

A distanza di 26 anni ancora nessun colpevole per la strage di Piazza della Loggia a Brescia: tutti i processi condotti in questi anni non hanno infatti portato ad alcuna condanna definitiva.
L’attentato fu rivendicato da Ordine Nero e negli anni ci furono depistaggi. Si sono susseguite diverse istruttorie:

LA PRIMA ISTRUTTORIA
La prima portò alla condanna nel 1979 di esponenti dell’estrema destra bresciana. Uno di loro, Ermanno Buzzi, in carcere in attesa d’appello, fu strangolato il 13 aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. In secondo grado, nel 1982, la sentenza venne annullata e le condanne mutate in assoluzioni poi confermate nel 1985 dalla Corte di Cassazione.

LA SECONDA ISTRUTTORIA
La seconda istruttoria, iniziata nel 1984, accusò altri esponenti dell’estrema destra fra cui Mario Tuti, che nel 1972 aveva fondato il «Fronte rivoluzionario armato». Nel 1987 tutti gli imputati di questo filone di indagini furono assolti per insufficienza di prove e prosciolti nel 1989 con formula piena. La Cassazione confermerà.

LA TERZA ISTRUTTORIA
La terza istruttoria è quella che riguarda la sentenza odierna. Il 19 maggio 2005 la Corte di Cassazione confermò la richiesta arrestare Delfo Zorzi (oggi cittadino giapponese, non estradabile, con il nome di Hagen Roi) per il coinvolgimento nella strage.
Il 15 maggio 2008 sono stati rinviati a giudizio i sei imputati principali: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi. I rinviati a giudizio Zorzi, Maggi e Tramonte erano all’epoca militanti di Ordine Nuovo, gruppo neofascista fondato nel 1956 da Pino Rauti, organismo più volte coinvolto in indagini su attentati e stragi. Ordine Nuovo fu sciolto nel 1973 dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani con l’accusa di ricostituzione del Partito Fascista.
Delfino è invece un ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, all’epoca responsabile – con il grado di capitano – del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia. Maifredi, allora era collaboratore del ministro Taviani. Il 21 ottobre scorso, i pubblici ministeri hanno chiesto l’ergastolo per Tramonte, Maggi, Zorzi e Delfino, con l’accusa di concorso in strage. Per Rauti hanno chiesto l’assoluzione per insufficienza di prove, pur sottolineandone la responsabilità morale e politica per la strage.

SOSPETTI E DEVIAZIONI: SERVIZI SEGRETI
In tutta la vicenda è sempre aleggiato il forte sospetto che i Servizi segreti o apparati deviati dello Stato abbiano fatto di tutto per depistare le indagini. Molte le stranezze. Ad esempio gli esperti ricordano che poche ore dopo l’esplosione qualcuno – non identificato – ordinò ai pompieri di ripulire la piazza, cancellando così indizi. All’ospedale poi sparirono reperti prelevati dai corpi dei feriti e dei morti. E di recente una perizia antropologica ordinata dalla Procura di Brescia su una fotografia di 28 maggio rivelerebbe che nella piazza c’era Maurizio Tramonte.

L’Unità 17.11.10

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Brescia, assolti i cinque imputati per la strage di piazza della Loggia

Assolti per insufficienza di prove i cinque imputati per la strage di piazza della Loggia a Brescia. Alla fine del processo i giudici della Corte d’assise di Brescia hanno assolto Pino Rauti, Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Francesco Delfino, per i quali i pm avevano chiesto l’ergastolo. E’ stata revocata la misura cautelare nei confronti dell’ex ordinovista Delfo Zorzi che vive in Giappone. Nello sconcerto della città c’è chi – come Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime – punta il dito verso il Parlamento e le leggi sul segreto di Stato.

Il 21 ottobre scorso i pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni avevano chiesto l’assoluzione con formula dubitativa per l’ex segretario del Movimento sociale italiano Pino Rauti e l’ergastolo per il collaboratore dei servizi segreti Maurizio Tramonte, per i militanti di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, e infine per il generale dei carabinieri Francesco Delfino, accusati di concorso in strage e omicidio. A Maurizio Tramonte è stata riconosciuta la responsabilità per il reato di calunnia ai danni di un funzionario della questura, ma i giudici hanno disposto il non luogo a procedere per prescrizione dei termini in relazione al reato di calunnia.

Non ha nascosto la sua delusione il procuratore Di Martino dopo l’assoluzione. Il magistrato, che con il collega Piantoni ha seguito la lunga e complessa inchiesta, ha voluto spiegare che “il limite di questo processo non è stato il nostro impegno ma nel materiale che c’era”: “A fronte dell’impegno che abbiamo messo in campo ci aspettavamo un risultato che invece non è venuto”. Il difensore di Delfo Zorzi, Antonio Franchini, si aspettava una sentenza di assoluzione del suo assistito di fronte “a prove carenti” e in particolare a una “fonte inattendibile e infida” come Carlo Digilio.

“Questo processo, nonostante le assoluzioni di tutti, ha permesso il raggiungimento di un risultato: anche se le evidenze emerse non sono state considerate sufficienti, ciò non vuol dire che non vi fossero delle prove”. A parlare, con gli occhi pieni di lacrime, è Arnaldo Trebeschi, fratello di Alberto, una delle 8 vittime, morto a soli 37 anni. “Le prove di un depistaggio iniziato ben prima della strage ci sono – ha detto -. Le veline di Maurizio Tramonte ai servizi segreti risalgono a giorni prima della strage. Quelle veline invece di essere mostrate subito agli inquirenti vennero occultate. Già all’epoca, se quelle informazione fossero state rese note, si potevano rintracciare i colpevoli”.

La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974. Quel giorno, nella piazza sede del Comune di Brescia, si stava tenendo una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Alle 10 e 12 una bomba nascosta in un cestino della spazzatura esplose uccidendo otto persone e ferendone oltre cento. “L’unica cosa che a cui penso in questo momento sono quegli otto morti. Eravamo in piazza quella mattina…”, ha detto Milani, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Piazza della Loggia. “In questo processo le cose che mi hanno colpito sono state le reticenze, le falsità che hanno raccontato – ha aggiunto -. Stiamo ancora combattendo con un Parlamento che ti dice che sull’applicazione della legge sul segreto di Stato, a quattro anni dalla sua approvazione non ci sono ancora i regolamenti applicativi. Non c’è volontà di affrontare quegli anni”.

Provo un ”sentimento di impotenza” per la città di Brescia: “La città voleva due cose: verità e giustizia – ha detto il sindaco di Brescia, Adriano Paroli – ma non si è riusciti a raggiungerle. La città continuerà comunque a cercarle”. “E’ un insulto irreparabile a quanti quella mattina sono caduti in piazza, ai loro familiari, un’offesa che umilia la città e rischia di spegnere un ansia di verità e giustizia che la ricerca storica e il giudizio politico hanno invece da tempo appagato”, ha detto Paolo Corsini, deputato del Pd ed ex primo cittadino.

da Il Fatto Quotidiano 17.11.10