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"Se i giovani fuggono dalle università", di Tito Boeri

Il ministro dell´Istruzione, Università e Ricerca è intervenuta più volte nelle ultime settimane sui mass media. In nessuna di queste occasioni ha ritenuto di commentare i dati sul forte calo delle immatricolazioni alle università italiane nel 2011-12. È un silenzio molto eloquente. Assieme ai suoi colleghi di governo, sembra intenzionata ad assecondare il disinvestimento in capitale umano che il nostro Paese sta inconsapevolmente compiendo. Il governo ne è però consapevole: nel Piano nazionale di riforma, predisposto nell´ambito della nuova programmazione economica europea, si pone l´obiettivo di tenere saldamente i livelli di istruzione terziaria da qui al 2020 al di sotto di quelli della Romania, candidandosi ad essere il fanalino di coda dell´Unione in quanto a percentuale di laureati sulla popolazione. È un disinvestimento, dunque, voluto, posto come obiettivo strategico per i prossimi dieci anni.
Nei periodi di crisi le iscrizioni ai corsi universitari aumentano perché il tempo dedicato allo studio non viene sottratto ad attività remunerative, dato che non si trova comunque lavoro. È avvenuto anche nella Grande Recessione. Ovunque, tranne che da noi. Negli ultimi tre anni abbiamo subito una riduzione di quasi il 10 per cento delle immatricolazioni, pur avendo già ora uno dei rapporti tra laureati e popolazione in età lavorativa più bassi dell´Unione europea. Non si tratta di un fenomeno legato all´invecchiamento della popolazione. Non c´è stata una diminuzione delle coorti in uscita dalla scuola secondaria. Al contrario, nel 2010 ci sono stati 5.000 diplomati in più che nel 2008 ed è non solo il numero assoluto di immatricolazioni, ma anche il rapporto fra immatricolazioni e persone con 19 anni di età ad essere fortemente calato negli ultimi anni, dopo essere cresciuto quasi ininterrottamente nel Dopoguerra ed essere raddoppiato dal 1980 al 2005.
Non è neanche colpa delle tasse universitarie. Le entrate contributive per studente sarebbero addirittura diminuite in termini reali negli ultimi anni secondo i dati raccolti dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario. E poi c´è un tetto alle tasse di iscrizione che, almeno in linea di principio, non può essere superato neanche da atenei strangolati dai tagli dei trasferimenti statali. Forse il silenzio di molti rettori di fronte ai dati sulle immatricolazioni deriva dal fatto che non avrebbero comunque risorse per attivare nuovi corsi.
La forte riduzione nelle iscrizioni dei diciannovenni all´università è grave perché avviene proprio in un momento in cui c´è stato un ampliamento del divario nelle opportunità lavorative fra laureati e diplomati. La disoccupazione fra i poco istruiti è aumentata in tutta Europa di 6 punti percentuali contro meno di 2 punti per i laureati. In Italia un laureato guadagna, a parità di altre condizioni, circa il 50 per cento in più di un diplomato. E la crisi ha accelerato in tutta l´Unione il processo di cambiamento nella composizione dei posti di lavoro, che premia i servizi alle imprese, l´istruzione, la sanità e che nel manifatturiero vede sopravvivere solo posti di lavoro che richiedono manodopera altamente qualificata. Le nuove opportunità di impiego per le persone poco istruite sembrano essere solo nei servizi alle persone, ad esempio nell´assistenza agli anziani, dove si trovano a competere con manodopera immigrata molto più qualificata di loro. Insomma divari salariali e andamento dell´occupazione segnalano un´offerta insufficiente di laureati, il che dovrebbe stimolare maggiori immatricolazioni.
Come spiegare allora il calo delle iscrizioni? Non poche famiglie possono avere problemi di liquidità nel finanziare gli studi in periodi di crisi, soprattutto quando si tratta di istruzione di qualità. Chi vive nel Mezzogiorno spesso per accedere ad insegnamenti universitari di un certo livello deve spostarsi al Nord sostenendo spese ingenti. Un´altra spiegazione è legata all´insuccesso sin qui delle lauree brevi che avrebbero dovuto offrire opportunità occupazionali anche a chi era poco preparato per un lungo ciclo di studi. Il mercato del lavoro, almeno sin qui, non sembra valutare le lauree brevi molto meglio della maturità. Una terza spiegazione ha a che vedere con il dualismo del nostro mercato del lavoro: è vero che il futuro è nell´istruzione terziaria, ma i rendimenti dell´istruzione sono molto più bassi per chi ha contratti di lavoro temporaneo rispetto a chi ha contratti permanenti. Il precariato porta con sé un appiattimento della struttura retributiva tra chi è laureato e chi non lo è. Infine ci possono essere percezioni sbagliate delle famiglie, fabbriche dei sogni. È la molla che spinge molte ragazze, magari incoraggiate dai genitori, a cercare a tutti i costi una carriera nello spettacolo. È un investimento infinitamente meno redditizio dell´istruzione. Solo una su mille riuscirà ad avere un´apparizione televisiva, rigorosamente silenziosa dati i contenuti di molti programmi, e poi un futuro senza né arte né parte.
Ognuna di queste spiegazioni ci dice che si può fare molto per evitare che il nostro Paese continui a disinvestire nel proprio futuro. Tanto per cominciare il ministro del Lavoro dovrebbe smetterla di invitare i giovani a fare “lavori socialmente umili” anziché proseguire gli studi e ambire a lavori qualificati. Poi bisognerebbe cambiare le regole di ingresso nel mercato del lavoro in modo tale da incentivare investimenti in capitale umano sia nell´istruzione formale che in azienda. Ancora si potrebbe, come in Australia, Germania e Regno Unito introdurre prestiti agli studenti meritevoli che non hanno soldi per finanziare gli studi. Per vincere la forte avversione al rischio di molte famiglie e tenere conto del ritardo con cui si entra da noi nel mercato del lavoro protetto, questi prestiti dovrebbero essere ripagati solo quando si comincia ad avere redditi da lavoro adeguati. Attenzione perché a questo riguardo c´è una presa in giro: il fondo “Diamogli il Futuro” ampiamente propagandato dal ministero della Gioventù. Contempla prestiti che non possono eccedere i 5.000 euro all´anno, quando le spese di un fuori sede sono fino a 6 volte più alte, e devono cominciare ad essere ripagati due anni e mezzo dopo aver ricevuto l´ultima rata anche da chi non trova un lavoro. Basta guardare la dotazione del fondo per rendersi conto del fatto che si tratta della solita bandierina posta per dire “l´abbiamo fatto”: 19 milioni di euro, quanto sufficiente a elargire al massimo 700 (micro) prestiti nel corso del tempo. Questi soldi rischiano di finire tutti nella società a capitale pubblico che dovrà vagliare le domande. Sempre che non intervenga prima un mille proroghe che destini quei fondi altrove, magari al digitale terrestre, come già avvenuto per i fondi per la banda larga. Che bisogno c´è di studiare dopotutto quando si può guardare più di 200 canali alla tv?

La Repubblica 23.03.11