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"80 miliardi di rigore senza crescita", di Eugenio Scalfari

È sbagliato sostenere che Tremonti abbia ceduto alle pressioni congiunte di Berlusconi e di Bossi rinviando il grosso della manovra (40 miliardi) al biennio 2013-14. Il calendario era stato concordato da tempo con la Commissione di Bruxelles: i conti pubblici italiani erano considerati in sicurezza fino al 2012 dopo le manovre effettuate nel biennio precedente. Ci voleva una manovra ulteriore per arrivare entro il 2013 all´eliminazione del deficit ed entro il 2014 al pareggio del bilancio.
Perciò – l´ha sottolineato anche Napolitano – tutto procede secondo i ritmi prestabiliti anche se il peso della manovra si scaricherà sui primi due anni della nuova legislatura e del governo che ne sarà l´espressione.
Il Presidente della Repubblica ha anche osservato che decidere oggi quello che dovrà avvenire tra due-tre anni vincola la responsabilità dell´attuale maggioranza. È un auspicio che tenta di stabilire un collegamento e una coerenza di comportamenti tra la maggioranza attuale e quella della nuova legislatura, quale che ne sarà la composizione e il colore; ma è un auspicio scritto sull´acqua perché, fermo restando il fine del pareggio del bilancio, i modi per arrivarci riguarderanno il futuro Parlamento, il futuro governo ed anche il futuro Presidente della Repubblica. Il futuro è sulle ginocchia di Giove, ammesso che Giove da qualche parte ci sia.

Resta il fatto che nel quinquennio 2009-2014 le manovre decise da Tremonti, dal governo e dalla maggioranza ammontano nel complesso a 80 miliardi pagati ovviamente dai contribuenti. Bisogna a questo punto chiedersi a che cosa è servito un prelievo di risorse così imponente ed anche quali sono i ceti che ne hanno sopportato il maggior peso.
Prima però di rispondere a questi due interrogativi è opportuno ricordare che, per quanto riguarda la manovra di 40 miliardi che avverrà nel biennio 2013-2014, è stata finora indicata la copertura per 18 miliardi (Sanità, sfoltimento delle detrazioni, congelamento degli organici e degli stipendi del pubblico impiego, tagli di contributi alle Regioni e ai Comuni). Per oltre 22 miliardi la copertura non è ancora nota ma dovrà esserlo prima che il decreto (ma meglio sarebbe un disegno di legge) venga trasmesso al Parlamento.
È opportuno altresì ricordare che contemporaneamente al decreto (o disegno di legge) concernente la manovra Tremonti presenterà anche una legge-delega per la riforma del sistema fiscale. Si tratta di due operazioni strettamente connesse che incideranno profondamente sull´economia reale ed anche sulla formazione delle risorse e sulla loro distribuzione.
Fa molto bene il Presidente della Repubblica a raccomandare condivisione politica su un fagotto di decisioni e di normative grosso come una montagna; purtroppo anche questa sua raccomandazione, come l´altra già citata, è scritta sull´acqua perché sia Tremonti sia Berlusconi sono disposti soltanto ad accettare che l´opposizione voti le loro decisioni senza tuttavia modificarle perché, come ha detto in proposito il ministro dell´Economia, “quattro deve restare quattro”. E sono anche decisi – Tremonti e Berlusconi – a chiedere la fiducia se lo riterranno necessario, per cui l´esortazione di Napolitano non avrà alcun seguito.
Purtroppo non avrà seguito neppure l´osservazione che il Presidente della Repubblica ha formulato dopo aver firmato il decreto sui rifiuti di Napoli. Calderoli gli ha già risposto sprezzantemente a nome della Lega. La situazione in casa leghista deve essere molto seria se Bossi e i suoi colonnelli trattano con questa disinvoltura i suggerimenti del Capo dello Stato.
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Consideriamo ora i due interrogativi che ci siamo posti: quali sono gli obiettivi che la manovra voleva realizzare e chi ne ha sopportato il peso maggiore. Con due necessarie premesse: l´intera operazione è avvenuta nel corso della grande crisi internazionale che ha investito il mondo intero; la suddetta operazione non contempla però le manovre che nel frattempo sono state compiute dagli enti locali con le poche imposte delle quali essi autonomamente dispongono e con i debiti che hanno autonomamente contratto, da aggiungere al debito pubblico che riguarda direttamente lo Stato. Ed ecco gli obiettivi che avrebbero dovuto essere raggiunti.
Un obiettivo politico che governo e maggioranza si erano posti fin dal 2001 (anzi fin dal 1994) fu la riduzione del carico fiscale. Ma questo impegno era una falsa e irrealizzabile promessa e tale si è dimostrata. Tale resterà anche quando nel 2014 la riforma fiscale sarà entrata in vigore.
Bisognava migliorare i servizi, statali e locali. Ma i servizi non sono migliorati, semmai sono peggiorati.
Bisognava ridurre il debito pubblico. Il debito pubblico è aumentato, attualmente viaggia al 120 per cento del Pil.
Bisognava creare una rete di protezione che desse un senso al lavoro flessibile e impedisse che la flessibilità si trasformasse in precariato. Questa rete non è stata costruita.
Bisognava ridurre le diseguaglianze sociali, ma le disuguaglianze sono aumentate.
Bisognava accrescere la produttività e la competitività del sistema. Sono entrambe fortemente peggiorate.
Bisognava bloccare la spesa corrente la quale è aumentata negli ultimi vent´anni ad un ritmo medio del 2 per cento annuo. Bisognava far crescere gli investimenti e quindi la spesa in conto capitale. È avvenuto esattamente il contrario: la spesa corrente ha continuato nel suo ritmo di crescita del 2 per cento e quella in conto capitale è praticamente vicino allo zero.
Bisognava sfoltire e semplificare la burocrazia e liberalizzare le procedure che governano l´imprenditorialità. Non c´è stata alcuna semplificazione nonostante il falò di leggi abolite dal ministro Calderoli; nessuno ha mai saputo quali carte abbia bruciato quel folcloristico ministro. Sta di fatto che l´obiettivo semplificatorio viene riproposto quasi una volta al mese da alcuni anni. Se ne parla ancora nel progetto di riforma fiscale e se ne è parlato nei recenti provvedimenti sullo sviluppo. Insomma è un mantra ricorrente da vent´anni e mai realizzato. Sarebbe più serio non parlarne più. Doveva essere – la semplificazione burocratica – parte integrante del federalismo, ma anche il federalismo è rimasto allo stato larvale. Perfino i leghisti si sono ormai accorti che con questi chiari di luna il federalismo è diventato una parola vuota.
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Tuttavia quegli 80 miliardi sono stati prelevati. Sono serviti a far diminuire il rapporto tra spese correnti e Pil al netto degli interessi sul debito, ma nel frattempo l´onere di quegli interessi è cresciuto. L´altro obiettivo di quegli 80 miliardi è come sappiamo l´azzeramento del disavanzo di bilancio. Dovrebbe avvenire entro il 2014. Incrociamo le dita.
Si aggiunga che i costi della politica non saranno toccati ora ma se ne parlerà anche per essi nella prossima legislatura.
Questo è il consuntivo. Nient´affatto esaltante.
L´onere della manovra ha pesato finora interamente sul lavoro dipendente e sui pensionati. Nel frattempo l´evasione fiscale è fortemente aumentata. La Guardia di Finanza e l´Agenzia delle entrate hanno quest´anno recuperato 10 miliardi dall´evasione ma nel frattempo l´ammontare complessivo dell´evasione è aumentato di 30 miliardi (cifre Istat, Banca d´Italia, Ministero del Tesoro): recuperano dieci e perdono trenta.
Ci siamo scordati di qualche cosa? Sì, ci siamo scordati della crescita. Sia l´Europa, sia la Bce, sia il Fondo monetario internazionale ci hanno chiesto rigore e rilancio della crescita. Il rigore c´è stato e continuerà, ma di crescita nemmeno a parlarne: non c´è stata e non si prevede che ci sarà, l´encefalogramma dello sviluppo è piatto da vent´anni e tale resterà fino al 2014. Berlusconi voleva, Bossi voleva, ma mettevano una condizione: niente mani nelle tasche. Di chi? Dei ceti abbienti. Tremonti li ha fatti contenti, la crescita aspetterà.
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Nelle ultime ore i complimenti a Tremonti si sono sprecati. L´hanno ringraziato tutti: i ministri, il presidente del Consiglio, i dirigenti del suo partito, i giornali di famiglia, i cugini, anche quelli in quarto grado e oltre. Le autorità europee. Ma di che cosa?
Il debito sovrano è sempre esposto a tutti i venti. Il rendimento dei Btp è arrivato al 5 per cento, record storico. Il differenziale dei titoli italiani rispetto al Bund tedesco viaggia oltre quota 200. Le pensioni minime sia d´anzianità che di vecchiaia sono ferme a 500 euro mensili. I redditi sotto ai 30 mila euro sono tartassati, quelli sopra ai 70 mila sono favoriti dalla riforma fiscale. Il peso delle imposte sarà spostato dalle persone ai consumi e a i servizi.
Per sostenere i massicci rinnovi di titoli pubblici in scadenza, il Tesoro premerà sulle banche affinché sottoscrivano a fermo. Proprio per questo il ministro dell´Economia vuole che la Banca d´Italia diventi una “struttura servente” del Tesoro.
Di che cosa dobbiamo dunque ringraziare Tremonti? Francamente non so rispondere. Mi si potrà dire che poteva andare peggio, ma anche al peggio c´è un limite e a me sembra sia stato toccato.

Post scriptum. Qualche giorno fa il giornale Il Fatto quotidiano ha inventato un “disparere” tra me e il collega Massimo Giannini, vicedirettore ed editorialista del nostro giornale, a proposito delle nostre valutazioni sul ministro dell´Economia. Informo i colleghi del Fatto quotidiano che noi di Repubblica lavoriamo in squadra, fermo restando che non ci sarebbe niente di strano se ci fossero pareri diversi in un libero giornale. Nella fattispecie però quei pareri diversi non ci sono stati. Giannini ha avuto una conversazione con Tremonti e ne ha fedelmente riferito il contenuto con notizie esclusive e importanti sulla manovra. Poi ha scritto alcune considerazioni critiche su quanto il ministro gli aveva comunicato. Due giorni dopo ho scritto un articolo sulla Banca d´Italia che è stato letto, vagliato, messo in pagina e titolato da Giannini. A Repubblica noi lavoriamo così e ne siamo molto contenti.

La Repubblica 03.07.11

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Pensioni, no dei sindacati ai tagli. L’opposizione attacca: colpiti i più deboli

Cresce la protesta contro la stretta sulle pensioni varata con la manovra. Il provvedimento colpisce infatti anche gli assegni previdenziali non particolarmente ricchi, quelli sopra 1.400 euro lordi al mese.

Il decreto varato dal governo prevede la mancata rivalutazione per il biennio 2012-2013 delle pensioni superiori a cinque volte il minimo, cioè 2.300 euro al mese, mentre quelle più basse, comprese tra 1.428 e 2.380 euro mensili, saranno rivalutate per tener conto dell’inflazione, ma solo nella misura del 45%. La platea colpita dal blocco riguarda 4,4 milioni di pensioni, su un totale di circa 16 milioni e la stretta, secondo Il Sole 24 Ore, dovrebbe garantire una minor spesa cumulata, nel triennio 2012-2014, pari a 2,2 miliardi.

L’Inps ha oggi precisato che le pensioni tra 1.428 e 2.380 euro mensili saranno rivalutate al 100% nella fascia fino a 1.428 e la rivalutazione al 45% ci sarà solo per la quota eccedente. Le pensioni superiori a 2.380 euro mensili saranno rivalutare invece al 100% nella fascia fino a 1.428 euro, al 45% nella fascia da 1.428 a 2.380 e solo nella quota superiore a 2.380 euro mensili non avranno alcuna rivalutazione.

Il provvedimento mette in allarme i sindacati, pronti alla mobilitazione, e scatena la protesta tra i partiti dell’opposizione, che attaccano a testa bassa il governo. Ma si lamenta anche la base del Pdl che critica i tagli alle pensioni ma anche i rincari sulle auto di lusso. Un coro di “no” arriva anche sulle altre misure, quelle che gravano comunque sui redditi medio-bassi e che tagliano i trasferimenti agli enti locali, incidendo inevitabilmente sui servizi socio-assistenziali.

«Le pensioni non si toccano», ha detto anche il leader della Lega Umberto Bossi durante un comizio nel bergamasco. «Le pensioni delle donne non si toccano fin dopo il 2030» ha aggiunto.

È «un provvedimento ingiusto e socialmente non sostenibile» si indigna il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni che reclama da governo e Parlamento la correzione delle norme che bloccano l’adeguamento all’ andamento dell’inflazione. Anche i pensionati della Cgil parlando di una «vergogna» e sottolineano che ad essere colpiti saranno anche gli anziani che percepiscono assegni da 800 euro netti al mese. «Oltre a essere tassati maggiormente – dice la Spi Cgil – avranno una riduzione drastica dell’assistenza socio-sanitaria, un ulteriore balzello per salvaguardare la loro salute».

«Una misura inaccettabile, inserita in una manovra che ancora una volta colpisce i soliti noti, che non affronta i temi della crescita e che picchia duro sui lavoratori e sui pensionati», afferma il segretario confederale della Cgil, Vera Lamonica, che poi annuncia: il sindacato «si opporrà con forza anche con la mobilitazione».

«L’eventuale mancata rivalutazione delle pensioni vuol dire impoverire una platea molto ampia di cittadini e significa scaricare nuovamente sulle solite categorie il peso della crisi e del bilancio dello Stato», dichiara Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl.

Ma è dal fronte politico che si prefigura un forte fuoco di fila nei confronti della manovra Tremonti. Non solo ai 47 miliardi annunciati non si arriva «nemmeno lontanamente» ma «almeno 30 miliardi investono direttamente politiche sociali e del territorio, aggredito nei servizi e negli investimenti» denuncia il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. E tutto questo, avverte il leader democratico, avviene «scaricando il problema sui governi che verranno, con l’uso del voto di fiducia da parte di chi non ha più la fiducia degli italiani».

Di manovra iniqua parla anche Marina Sereni del Pd. «È abbastanza chiaro che i tagli, quelli più consistenti, verranno realizzati nell’immediato nei settori della sanità, della previdenza, del welfare, della scuola, degli Enti Locali mentre le scelte per lo sviluppo e per modernizzare davvero il sistema Italia sono rinviate ancora una volta a data da destinarsi. Una manovra sleale verso il Paese, priva di coraggio e di onestà, che lascia in eredità ai futuri Governi un fardello pesantissimo di debito pubblico, bassa crescita e diseguaglianza sociale», sottolinea l’esponente del Pd.

«Mano mano che emergono i dettagli viene fuori il segno sociale di una manovra che ancora una volta è molto negativa per i redditi medi e bassi dei lavoratori e pensionati», attacca il responsabile economia e lavoro del Pd, Stefano Fassina, sottolineando che il dimezzamento dell’indicizzazione per le pensioni di 1.400 euro va a colpire redditi netti che sono di circa mille euro. «Questo è un colpo non solo all’equità ma che ha riflessi evidenti anche sui consumi di queste fasce sociali. È quindi una manovra che ha un effetto sistemico», fa notare Fassina. Se al dimezzamento dell’indicizzazione dell’inflazione, «che non verrà mai più recuperata» si aggiunge che lo stesso gruppo sociale, quello dei pensionati con condizioni di reddito basso e medio, «verrà colpito anche dall’aumento del ticket sanitario, ne emerge un quadro molto preoccupante».

Per non parlare – aggiunge il responsabile economico del Pd – del capitolo dei tagli agli enti territoriali: «si tratta di 9,5 miliardi che si aggiungono ai 13 miliardi dello scorso anno». «In totale sono 24 miliardi di euro che, come hanno detto anche i sindaci leghisti, sono assolutamente insostenibili. Anche questi tagli si scaricheranno sulle prestazioni sociali», continua Fassina che rileva come pure le norme che
aumentano l’imposta di bollo sui titoli si applica su pacchetti di oltre 1.000 euro in titoli, dove l’imposta sale da 34 a 120 euro. Insomma «il segno sociale di questa manovra è quello di colpire i redditi medio-bassi», conclude Fassina.

«La manovra Berlusconi-Tremonti candida chi dirige le amministrazioni territoriali, presidenti di Regione, di Province e sindaci a diventare esclusivamente dei curatori fallimentari», afferma Nichi Vendola, presidente di Sinistra ecologia libertà e della regone Puglia. «La manovra era partita con gli effetti speciali degli annunci, che riguardano sempre il futuro, mai il presente, dei tagli alla casta e alla politica. E poi quando uno osserva il contenuto vero della manovra capisce – guardando ad esempio l’incredibile vicenda del blocco delle pensioni – che si tratta della patrimoniale sui ceti medio bassi del nostro Paese. È – conclude Vendola – la patrimoniale sui poveri. Nientaltro».

«E’ un vero e proprio insulto colpire da un lato 13 milioni di pensionati molti dei quali già stentano ad arrivare a fine mese e, dall’altro, pesare con il misurino del farmacista, dilatandoli nel tempo, i tagli dei costi della politica. Questo governo continua a prendere a schiaffi precari, pensionati e dipendenti pubblici con parole e fatti. Non sono questi gli interventi di cui l’Italia ha bisogno», dice il capogruppo dell’Italia dei Valori in Senato, Felice Belisario.

«La manovra è una truffa, scarica il peso sul prossimo governo, non contiene misure strutturali, non rilancia l’economia ed offende pure i cittadini. Taglia sanità e scuola ma non i costi della politica. Un’offesa, una beffa ai danni dei cittadini da parte di una casta sempre più arrogante», aggiunge il capogruppo Idv alla Camera Massimo Donadi.

Che la manovra si scarichi sugli anni e sul governo a venire è anche Italia Futura a lamentarsene. «È un assegno post-datato», sostiene il think-tank che fa capo a Luca Cordero di Montezemolo che parla di un provvedimento che è il «minimo sindacale»,con «alcune ridicole prese in giro sui costi della politica». Tuttavia, «considerata la situazione della maggioranza, non era realistico aspettarsi di più» si osserva. Critiche arrivando anche da Fli e dall’Udc, che lamenta l’assenza di sostegni alle famiglie.

«Il governo nazionale coniuga il verbo del risanamento mettendo le mani in tasca ai siciliani e all’intero Mezzogiorno mentre insiste con un federalismo ingiusto e penalizzante per il meridione, riducendo al minimo le perequazioni», afferma il presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo. «La manovra da 47 milioni di euro – aggiunge il governatore – dispiegherà effetti micidiali su bilanci della Regione, delle Province regionali e dei Comuni che verranno letteralmente falcidiati rendendo arduo il risanamento che stiamo portando
avanti tra mille difficoltà. Una vera e propria mazzata. Mi chiedo – osserva il presidente Lombardo – dove si trovavano i ministri e i parlamentari siciliani quando sono stati approvati questi decreti. Oggi più che mai occorre che le Regioni del Sud facciano fronte comune».

I piccoli comuni non ci stanno, meno ancora di Roma, Milano, Torino e Napoli, e minacciano di essere pronti a scendere in piazza. Lo hanno detto chiaro all’XI conferenza nazionale dell’Anci-Piccoli Comuni, a Riva del Garda, in Trentino. I piccoli enti, quelli cioè sotto i 5.000 abitanti, sono il 70% dei Comuni italiani, con popolazione residente pari al 17% del totale e superficie uguale al 54% della complessiva protestano contro una manovra con una manovra «che taglia per altri 3 miliardi di euro i fondi per i Comuni». E per voce di Mauro Guerra, coordinatore nazionale Anci-Piccoli Comuni affermano: «è il momento di fare sentire maggiormente la nostra voce, di prendere iniziative, di partecipare ai tanti tavoli che decideremo di creare e di scendere in piazza, se necessario».

Il Messaggero 03.07.11

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“TROPPO TIMIDI PER CRESCERE”, di MARIO MONTI

C onviene lasciarsi guidare da Giacomo Leopardi, per apprezzare pienamente la manovra varata dal governo: «piacer figlio d’affanno» . In questa prospettiva il sollievo è anzi duplice, perché doppia era stata la tempesta. Alla prima tempesta, la sconfitta elettorale, la maggioranza ha avuto la tentazione di reagire con più spesa pubblica e con una riforma fiscale in disavanzo. Se questo non è avvenuto, lo si deve alla tenacia di Giulio Tremonti e ai vincoli europei, senza i quali gli sarebbe stato forse impossibile resistere alle pressioni del presidente del Consiglio e di quasi tutto il governo. Questa resistenza ha provocato una seconda tempesta, nella maggioranza, tale da mettere in dubbio che il Consiglio dei ministri trovasse un accordo. Invece, la manovra è stata varata, non aumenta il disavanzo e lo porta in linea con i vincoli europei. Non è detto che vi sia quiete nell’imminente discussione parlamentare, ma c’è almeno il piacere di vedere superato il duplice affanno. Se questo non fosse avvenuto, una nuova tempesta avrebbe potuto dirigersi verso l’Italia, proveniente dall’Egeo e dallo Ionio. Riconosciuti questi meriti importanti, va detto che nella politica economica del governo, anzi dei governi Berlusconi— in carica per 8 degli ultimi 10 anni e per 7 anni ispirata e guidata dal ministro Tremonti — sono sempre più evidenti i danni arrecati dal fatto che la grande, risoluta e indispensabile determinazione contabile non è stata e non è oggi ancorata ad alcuna strategia concreta e credibile di politica economica. Se questa manca, non basta rivendicare di avere previsto — prima, molto prima di tutti gli altri — l’evoluzione del cosmo economico-sociale o di avere lanciato nuovi standard etico-legali per governare la globalizzazione. Più modesto, ma più pressante è il compito di avere una visione su come l’Italia possa conquistare più competitività, più crescita, più equità; di coinvolgere in un tale progetto le forze economiche, sociali, culturali e politiche; di attenersi ad esso nell’azione di governo. Altrimenti, un governo può forse vincere la battaglia del numeratore ma, a causa della rivincita del denominatore, è il Paese intero che perde. Il concetto dovrebbe essere alla portata anche dei non economisti. I vincoli europei, ma anche il buon senso, impongono di mantenere entro certi limiti il disavanzo pubblico e il debito pubblico in percentuale del Prodotto interno lordo (Pil). La battaglia del numeratore consiste per un ministro dell’Economia nel resistere alle pressioni dei colleghi che vogliono spendere di più o ridurre le imposte. È quanto Tremonti fa con coraggio e non senza, si direbbe, un raffinato piacere. In passato, soprattutto quando non c’erano ancora vincoli europei, l’incapacità o la non volontà di fare questo era la principale carenza di molti ministri del Tesoro. Nell’attuale manovra — ma il ministro lo negherà — il piacere dev’essere in parte consistito nel fare slittare sul prossimo governo la quota del costo politico del porre in atto davvero le misure per ridurre il disavanzo per il 2013 e il 2014.
il denominatore, cioè il Pil? È ovviamente la variabile cruciale, per due motivi. Costituisce una delle misure dello stato dell’economia e del benessere dei cittadini, cioè uno dei fondamentali obiettivi finali della politica economica. Inoltre, essendo il denominatore dei rapporti disavanzo /Pil e debito /Pil, la sua crescita aiuta anche a rispettare i vincoli europei. Se invece la politica economica non vuole promuoverne la crescita, o non ci riesce, ogni sforzo sul numeratore può venire frustrato. Purtroppo, né nel programma nazionale delle riforme né nella manovra ora varata il governo affronta adeguatamente il tema della crescita, cioè di come fare aumentare il Pil dell’Italia, che da molti anni cresce parecchio meno che negli altri Paesi europei. La Commissione europea, nelle sue raccomandazioni, ha insistito molto sulle misure necessarie a questo scopo. Ma il governo, forse per non creare scontento in categorie sociali che ancora sembrano sostenere questa maggioranza, è stato particolarmente timido. Va nella direzione giusta la liberalizzazione degli orari dei negozi (anche se sperimentale e molto limitata) ma poco o niente viene fatto per immettere più concorrenza nel settore dei servizi in generale, nelle industrie a rete (trasporti, energia, telecomunicazioni), nelle professioni. E poco viene fatto per ridurre, subito e in misura significativa, il peso sull’economia e sulla società italiana degli esorbitanti costi del sistema politico, peraltro scarsamente «produttivo» in termini di decisioni prese tempestivamente per la crescita del Paese. Senza un forte scatto in avanti, difficilmente l’Italia riemergerà nella competizione mondiale. Triste conforto trarremmo allora dal pensare, ancora con Leopardi, che «naufragar m’è dolce in questo mare» .

Il Corriere della Sera 03.07.11