lavoro

“Posto fisso non fermiamoci a Tremonti”, di Marco Simoni

La conversione del ministro Tremonti sulla via del del posto fisso mi ha ricordato la prima campagna di Berlusconi, nel 1994, nella quale promise un milione di posti di lavoro. Col senno di poi, la reazione del centrosinistra, che attaccò la promessa come non credibile, fa sorridere: tra chi prometteva di creare lavoro e chi criticò la promessa, gli italiani, reduci dalla crisi economica, votarono per il primo. In maniera del tutto simile, Tremonti fa una apologia del posto fisso e, mentre i sindacati hanno abilmente raccolto la proposta e suggerito un tavolo con Confindustria, girando dunque il coltello nella piaga aperta dal centrodestra, il resto del centrosinistra si è impegnato a spiegare che si tratta di una idea non credibile, o che il problema è un altro. Ancora una volta, a chi dovrebbe affidarsi un ragazzo precario: a chi sostiene il posto fisso o a chi spiega che si tratta di un discorso non credibile e che vanno invece potenziate la formazione e i sussidi di disoccupazione? Naturalmente mi si potrebbe obiettare di ingenerosità, osservando che il centrodestra fa propaganda, mentre il centrosinistra cerca risposte serie e fondate. «È solo un problema di comunicazione», sembra di sentir dire. In realtà, non si tratta solo di comunicazione, ma di cogliere la gravità e la sostanza dei problemi, cosa che il centrodestra, in maniera spregiudicata e irresponsabile, è bravissimo a fare, il centrosinistra meno. In Italia la flessibilità senza opportunità ha falcidiato una generazione, e sta per colpire la seconda. Decine di migliaia di uomini e donne abbondantemente oltre i 40 anni sono ancora privi di stabilità, oltre alla grande maggioranza degli under 40. Il punto non è più, per queste generazioni, individuare il sistema astrattamente più giusto o teoricamente preferibile per regolare il lavoro. La dimensione del problema chiama al contrario la necessità di misure urgenti, per evitare che tra quindici-vent’anni, si arrivi ad una società frantumata, priva di punti di riferimento, senza una classe media stabile, e per giunta con la produttività delle aziende ancora più in basso. Infatti, quel che è evidente della precarietà modello italiano è che essa, oltre a pesare sulle vite delle persone, ha anche gravemente danneggiato le aziende, inficiando la crescita professionale sul posto di lavoro, mortificando le energie lavoratrici là dove bisognerebbe stimolarle. La conversione di Tremonti andrebbe accolta andando a scoprire il suo bluff, con proposte che – pur senza tornare a modelli del passato – mirino a ridurre nettamente la possibilità di assumere personale flessibile, spingendo le aziende e i lavoratori ad un rapido cambio di passo.

* London School of Economy

L’Unità, 28 ottobre 2009